L’obbedienza e il potere direttivo del datore di lavoro

Il co. II dell’art. 2104, c.c., pone a carico del prestatore l’obbligo di obbedienza, sancendo che egli deve osservare le disposizioni per l’esecuzione e la disciplina del lavoro che gli vengono impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende. Come la giurisprudenza ha ripetutamente precisato, la soggezione del prestatore al datore ed ai suoi collaboratori non può superare i limiti imposti dalle norme di legge – in particolare, da quelle dello Statuto dei lavoratori – e dalle norme contrattuali, potendo, in caso contrario, il lavoratore, esercitare il c.d. jus resistentiae, cioè rifiutarsi di osservare le disposizioni impartite. L’inosservanza dell’obbligo di obbedienza può costituire, nei casi più gravi, giustificato motivo (soggettivo) di licenziamento.

 

L’obbligo di fedeltà. Il divieto di concorrenza e le invenzioni del lavoratore. Il divieto di utilizzazione o divulgazione di segreti aziendali

L’art. 2105, c.c., rubricato “Obbligo di fedeltà” pone a carico del prestatore un obbligo volto a tutelare l’interesse dell’imprenditore alla capacità di concorrenza dell’impresa. Esso trae origine dal principio generale per il quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (artt. 1175 e 1375, c.c.).

Tre sono i divieti che costituiscono il contenuto dell’art. 2105, c.c., e cioè:

il divieto per il prestatore di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore: esso va distinto dal divieto di concorrenza sleale, di cui all’art. 2598, c.c., che rappresenta una forma di illecito extracontrattuale e si verifica solo nei casi espressamente previsti dalla norma;

il divieto di divulgazione delle notizie attinenti alla organizzazione ed ai metodi di produzione dell’impresa (c.d. segreti aziendali), con riferimento al quale va chiarito, da un lato, che si ha “divulgazione” quando le notizie di cui si tratta non abbiano ancora raggiunto un alto grado di diffusione e, dall’altro, che la divulgazione è vietata se ed in quanto finalizzata ad arrecare pregiudizio all’impresa;

il divieto di uso dei c.d. segreti aziendali: tale divieto, al pari di quello di divulgazione, è penalmente sanzionato (si vedano, in proposito, gli artt. 621, 622 e 623, c.p.).

Sul piano civilistico, la violazione dell’art. 2105, c.c., dà luogo sia alla responsabilità disciplinare sia al risarcimento del danno eventualmente causato al datore. In conclusione, va anche ricordato che per alcuni autori e per la giurisprudenza l’art. 2105, c.c., è una norma dispositiva e non imperativa, per cui l’autonomia delle parti – individuali o collettive – può sia consentire lo svolgimento di attività in concorrenza sia vietare al lavoratore l’espletamento di altre attività, autonome o subordinate, a favore di terzi, indipendentemente dalla rilevanza o meno di esse sotto il profilo della concorrenza.

II R.D. del ’39 n°1127 stabilisce, in tema di brevetti industriali, 3 casi:

se l’attività inventiva è oggetto del contratto di lavoro, i diritti derivanti dall’invenzione del lavoratore appartengono al datore

se l’attività non è oggetto del contratto, ma l’invenzione sia comunque realizzata nell’esecuzione di un contratto, i diritti appartengono ancora al datore, ma il lavoratore ha diritto ad un equo premio

se l’invenzione è realizzata dal lavoratore in maniera indipendente, ma riguarda il campo di attività dell’impresa, i diritti spettano al prestatore, ma il datore ha diritto di prelazione per uso e acquisto.

 

Il patto di non concorrenza

Il divieto di concorrenza, sancito dall’art. 2105, c.c., avendo natura contrattuale, si estingue al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Tuttavia, l’art. 2125, c.c., consente alle parti di limitare lo svolgimento dell’attività del prestatore anche successivamente alla cessazione del contratto, con la stipulazione del “patto di non concorrenza”. Tale stipulazione è circondata da particolari garanzie, essendo richiesti:

la forma scritta, a pena di nullità;

la previsione di un corrispettivo a favore del lavoratore;

il contenimento del vincolo entro determinati limiti di oggetto, luogo e tempo (generalmente 3 anni; 5 per i dirigenti);

La violazione del patto di non concorrenza può dar luogo ad una condanna al risarcimento del danno, ma non ad un ordine di cessazione dell’attività svolta.

 

Le invenzioni e le opere dell’ingegno del lavoratore

Il linea generale, la disciplina che riguarda tale ipotesi stabilisce che mentre il diritto morale alla paternità dell’opera resta all’inventore, il diritto patrimoniale al rilascio del brevetto e alla sua utilizzazione spetta al datore di lavoro. La logica sottesa a tale disciplina, infatti, è che l’invenzione spetti non a chi l’ha realizzata ma a colui che ha promosso, organizzato e finanziato l’attività della ricerca. Tuttavia possono presentarsi tre diverse fattispecie con altrettante diverse soluzioni :

– invenzione di servizio, quando l’attività inventiva è l’oggetto della prestazione lavorativa per la quale è prevista una precisa remunerazione: in tal caso il diritto al rilascio del brevetto spetta originariamente ed automaticamente al datore di lavoro;

– invenzione d’azienda, quando è realizzata nell’ambito di un rapporto di lavoro dove tuttavia non è prevista un compenso per l’attività inventiva né quest’ultima rientra nell’oggetto della prestazione lavorativa: il brevetto spetta sempre al datore di lavoro ma l’inventore ha diritto ad un equo premio;

– invenzione occasionale, quando l’invenzione, pur rientrando nel campo dell’attività dell’azienda, non ha alcun nesso oggettivo con le mansioni del dipendente: in questo caso il diritto al brevetto spetta al dipendente ma il datore di lavoro ha un diritto di prelazione per l’acquisto del brevetto.

 

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