L’inquadramento professionale dei lavoratori assume rilievo non solo al fine di determinare l’oggetto della prestazione di lavoro, ma anche al fine di individuare il trattamento economico e normativo applicabile al lavoratore. La contrattazione collettiva individua le qualifiche tipiche o più ricorrenti in base alle concrete caratteristiche dell’organizzazione del lavoro nei diversi settori produttivi.

Le singole qualifiche, poi, sono raggruppate per “gradi” a seconda della loro “importanza”, ossia tenendo conto della collocazione nella “scala gerarchica” dei collaboratori dell’impresa, e del livello di autonomia, responsabilità e competenze, che è caratteristico di ciascun “grado”. Di conseguenza, la stessa contrattazione collettiva stabilisce il trattamento applicabile differenziandolo in base ai “gradi” individuati, e ciò in particolare per quanto riguarda la retribuzione spettante, dovendo questa essere “proporzionata” non solo alla quantità ma anche alla “qualità” del lavoro prestato.

L’articolo 2095 del Codice civile prevede, inoltre, che le innumerevoli mansioni e qualifiche enucleabili nell’organizzazione del lavoro dei diversi settori produttivi siano tutte riconducibili a quattro grandi categorie legali: dirigenti, quadri, impiegati, operai. Tale classificazione ha, tuttavia, un rilievo limitato, in quanto l’unica categoria che risulta destinataria di una disciplina legale e sindacale nettamente differenziata è quella dei dirigenti.

Il dirigente si caratterizza, infatti, per essere l’alter ego dell’imprenditore, molto più vicino a quest’ultimo che non agli altri lavoratori dipendenti. Per questa ragione, i dirigenti hanno dato vita ad una propria distinta rappresentanza sindacale (anche a livello aziendale) e sono destinatari di una propria distinta contrattazione collettiva. L’articolo 2095 del codice civile prevede che i “requisiti di appartenenza” alla categoria dei dirigenti, così come alle altre categorie legali, sono stabiliti dalle leggi speciali e dai contratti collettivi, “in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura dell’impresa”.

La giurisprudenza ha definito il dirigente come colui che è preposto alla direzione dell’intera azienda, o di un suo ramo autonomo ed importante, esercitando i relativi poteri decisionali ed ambiti di autonomia. La contrattazione collettiva, invece, individua requisiti meno rigorosi, tenendo conto della notevole complessità che l’organizzazione può assumere, per effetto della quale, nell’ambito della stessa impresa, vi possono essere più livelli dirigenziali.

La contrattazione collettiva tiene conto, altresì, della importanza di funzioni che risultano determinanti ai fini della assunzione delle decisioni che competono ad altri soggetti (come nel caso del dirigente preposto a delicate funzioni c.d. di staff, quale la direzione legale, che è essenziale per orientare importanti decisioni che riguardano l’attività dell’impresa). Per quanto riguarda le altre categorie legali, i criteri di identificazione sono più incerti, e limitate sono le differenze di trattamento legale e sindacale.

I quadri sono la categoria più “giovane”, essendo stata introdotta dalla legge 190 del 1985 per soddisfare le richieste e le pressioni di un allora nascente movimento sindacale che mirava all’affermazione di una precisa identità professionale per i lavoratori collocati nei livelli più alti della categoria degli impiegati. Il legislatore ha, così, incluso i quadri nella classificazione dell’articolo 2095 del Codice civile, stabilendo che tale nuova categoria è costituita da quei lavorati che “pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti svolgono funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa”.

Il riconoscimento in tal modo intervenuto è rimasto, però, essenzialmente di carattere formale. Infatti, in linea di principio, ai quadri si applicano le stesse norme che riguardano gli impiegati, salvo diverse espresse disposizioni. La categoria degli impiegati, invece, affonda le radici già nel regio decreto legge 1825 del 1924, che la individuava facendo riferimento ad elementi generici quali la “professionalità” e la “non manualità” della prestazione di lavoro.

Prendendo atto della genericità di tali elementi, la dottrina ha elaborato diversi criteri distintivi; tra questi merita di essere ricordato il criterio che fa riferimento al tipo di collaborazione prestata dagli impiegati, che avrebbe ad oggetto le attività che riguardano l’organizzazione dell’impresa, mentre gli altri operai presterebbero semplicemente una collaborazione “nell’impresa”.

In ogni caso, l’esigenza di distinguere con precisione la categoria impiegatizia da quella operaia è venuta gradualmente perdendo di interesse, in quanto la contrattazione collettiva ha superato la distinzione tra le due categorie prevedendo il cd “inquadramento unico”.

Con il contratto di lavoro, le parti possono concordare un periodo di prova, durante il quale ciascuna di esse può recedere liberamente, senza obblighi di preavviso. Lo scopo di tale pattuizione è valutare la convenzione del rapporto prima che questo divenga definitivo. Tale “esperimento” è previsto dalla legge nell’interesse di entrambe le parti, anche se solitamente è il datore di lavoro che richiede di sottoscrivere il patto in questione, subordinando, di fatto, l’assunzione alla accettazione della prova da parte del lavoratore, al fine di verificare le qualità e le attitudini professionali di quest’ultimo.

A tutela del lavoratore, il periodo di prova deve risultare da “atto scritto”, il quale è previsto, secondo l’opinione prevalente, ad substantiam. Inoltre, le parti hanno facoltà di prevedere una durata minima della prova (e, in tal caso, prima della sua scadenza, il datore di lavoro non è libero di recedere), e sono in ogni caso tenute a stabilire una durata massima, che non può eccedere quella stabilita dai contratti collettivi e, comunque, non può superare il periodo di 6 mesi.

Superato tale limite, infatti, in caso di recesso del datore di lavoro, trova applicazione la disciplina limitativa dei licenziamenti. Infine, il datore di lavoro è tenuto a consentire l’effettivo svolgimento di tale “esperimento”. Ciò implica, per un verso, che il patto deve individuare l’attività che forma oggetto della prova, indicando le mansioni da svolgere o, quantomeno, la “qualifica” o il “livello” attribuiti. Per altro verso, il recesso del datore di lavoro è impugnabile nell’ipotesi in cui il lavoratore dimostri che non gli sia stato consentito l’effettivo svolgimento della prova o che il recesso sia stato determinato da un motivo illecito o discriminatorio.

Le parti possono dare atto del positivo superamento della prova sia con una esplicita dichiarazione di volontà, sia con un comportamento concludente, e cioè non avvalendosi della facoltà di recesso entro il termine della prova. In entrambi i casi, l’assunzione diviene “definitiva” e “il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro”. Essendo, comunque, lavoro a tutti gli effetti, il servizio prestato dal lavoratore in prova determina la maturazione di tutti i diritti derivanti dalle prestazioni eseguite, compreso il trattamento di fine rapporto.

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