Come ricordiamo dalle istituzioni del diritto privato, il contratto può essere inficiato (quindi annullabile) dai vizi: errore motivo e errore ostativo, che influiscono sui motivi e dal dolo e violenza morale, che influiscono sulla formazione della volontà del consenso, essenziale alla conclusione del contratto.

L’ipotesi di errore sull’oggetto, o in generale sul contenuto del contratto di lavoro, è certamente difficile da configurare. Tale ipotesi è strettamente connessa alla considerazione soggettiva della persona (intuitu personae) dell’obbligato (prestatore), in relazione alle caratteristiche della prestazione dovuta.

Una simile situazione è ipotizzabile quando le attitudini professionali o personali del lavoratore abbiano specifico rilievo ai fini della prestazione e quindi dell’assunzione al lavoro, per cui il datore di lavoro ha il potere di valutarle ai fini della conclusione del contratto (per esempio giornalisti, vigilanti, custodi). Raro il caso in cui decisiva sia la considerazione soggettiva della persona del datore di lavoro. E’ possibile affermare dunque che la considerazione soggettiva della persona del lavoratore è un elemento essenziale del contratto e che solo eccezionalmente può essere motivo di impugnativa per errore.

 

Il divieto di indagine su fatti non rilevanti ai fini dell’attitudine professionale

La legge 1970 n° 300 del 1970 (detta anche Statuto dei lavoratori), all’art. 8, vieta al datore di raccogliere informazioni non rilevanti ai fini della valutazione professionale del lavoratore (c.d. indagini personali), prima e durante lo svolgimento del rapporto (e implicitamente permette le indagini sull’idoneità lavorativa).

All’art. 38 vieta le indagini per l’accertamento della sieropositività. La Corte Cost. ha, tuttavia, ammesso indagini sanitarie allo scopo di prevenire rischi per la salute dei terzi.

L’art. 15 dello Statuto vieta ogni discriminazione, nell’assunzione, per motivi di ordine sindacale, politico, razziale, religioso, di lingua e di sesso.

Due direttive comunitarie, risalenti al 2000, vietano le discriminazioni fondate sulla razza, sull’origine etnica, sulle religioni, sulle convinzioni personali, sugli handicap, sull’età o sulle tendenze sessuali.

Vietano, inoltre, le molestie che violino la dignità della persona o abbiano carattere intimidatorio.

Qualora violate, queste misure per la parità di trattamento implicano una sanzione penale, ex art. 38 dello Statuto.

 

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