Altro potere del datore oltre quello del caratte­re gerarchico dell’ esercizio, è il potere disciplinare, regolamentato dall’ art. 2106 cc. e dall’art.7 st.lv..

Si è a lungo discusso della natura del po­tere disciplinare del datore e sono risultate non appaganti le soluzioni civi­listiche, in particolare quella della clausola penale, alla quale il potere di­sciplinare non può essere avvicinato in quanto non presenta la funzione risarcitoria che è propria dell’istituto civilistico.

     Il potere disciplinare si qualifica per l’aspetto autoritativo che non può essere negato, in quanto non in contrasto con il principio di eguaglianza nei rapporti privati, in quanto il rapporto di lavoro è per sua natura caratterizzato dalla posizio­ne di supremazia del datore nei confronti del prestatore. TaIe supremazia trova il suo fondamento, per quanto riguarda il datore-imprenditore, nel­lo stesso art. 41 cost., che è il fondamento del potere di organizzazione a­ziendale caratterizzato anche dal potere disciplinare fina­lizzato a garantire l’ordine all’interno dell’ organizzazione aziendale.

Principio di legalità e principio del contraddittorio

      Ciò che importa è che il potere disciplinare non venga esercitato in contrasto con la libertà e dignità dei lavoratori, come richiede il comma secondo dello stesso art. 41 cost. A tal fine è intervenuto l’art. 7 st.lv. che ha introdotto due principi non previsti dall’art.2106 cc., e cioè il principio di legalità ed il principio del contraddittorio. In base al primo principio il datore non può applicare sanzioni se non sulla base di un codice disciplinare e di un codice di procedura disciplinare che lo stes­so datore deve portare a conoscenza dei dipendenti mediante l’affissione nei locali dell’azienda. È imposto al datore l’obbligo della pubbli­cità, che può avvenire soltanto con l’affissio­ne. È, tuttavia, evidente che se il datore de­ve portare a conoscenza i codici, gli stessi devono essere predeterminati (predeterminazione implicita).

L’art.7 st.lv. impone la conformità ai contratti collettivi laddove esistano, richiesta anche nel caso dei datori non iscritti, in quanto le disposizioni degli stessi contratti rappresentano il parametro per la deter­minazione del rapporto tra gravità dell’infrazione e gravità della sanzione, richiesta dall’art. 2106 cc.. Se non esistessero contratti collettivi la deter­minazione dei codici avverrebbe mediante l’esercizio del potere unilatera­le del datore di lavoro.

Il secondo princi­pio introdotto dall’art. 7 st.lv. è quello del contraddittorio in base al qua­le il datore non può applicare la sanzione, salvo il rimprovero verbale, senza aver consentito al prestatore di discolparsi nel termine minimo di 5 giorni, necessari anche nel caso di una discolpa in tempi più brevi, potendo il di­pendente nei giorni restanti integrare la difesa già espletata.

I principi della contestazione. La contestazione deve rispondere ai principi dell’immediatezza, della specificità e dell’immodificabilità a garanzia del diritto di difesa del prestatore. In base al primo principio il datore deve contestare l’infrazione subito dopo la conoscenza della stessa. La con­testazione deve specificare le circostanze di tempo e di luogo del compor­tamento imputato, del quale devono essere precisati gli elementi essenzia­li. La contestazione non può essere modificata nel tempo, se non per spe­cificazioni che non si discostino dal tipo d’infrazione contestato.

     L’audizione del prestatore e la diversità della prassi prevalente. Il da­tore dovrebbe ascoltare direttamente il prestatore, eventualmente assistito da un rappresentante sindacale. Spesso l’audizione manca ed il lavoratore si discolpa mediante un atto scritto; si ritiene che il datore non sia tenuto a convocare il dipendente in mancanza di richiesta entro i 5 giorni dalla contestazione o se lo stesso abbia comunque avuto la possibilità di esporre le proprie ragioni senza remore e con il rispetto provato del principio del contraddittorio (Cass. 18 giugno 2002, n. 8853; Cass. 28 agosto 2000, n. 11279).

Parte della giurisprudenza ha e­scluso che il lavoratore possa farsi assistere nel corso del contraddittorio da un avvocato, il cui intervento sarebbe nel nostro ordinamento ammesso soltanto in un giudizio. La tesi appare opinabile in quanto è indiscutibile la facol­tà di ogni cittadino di farsi assistere da un avvocato anche nelle fasi stra­giudiziarie di una controversia; d’altra parte la stessa cassazione ha affer­mato che il lavoratore può difendersi dalle contestazioni disciplinari nella più completa libertà di forme. D’altra parte alcuni contratti collettivi, come quello per il parastato, espressamente pre­vedono la possibilità che il dipendente si faccia assistere da un procurato­re, che potrebbe essere anche un avvocato.

Le infrazioni. Le infrazioni contestabili sono soltanto quelle, come ri­sulta dallo stesso art. 2106 cc., consistenti nella violazione di obblighi del prestatore di lavoro, sia il principale della prestazione lavorativa, sia gli al­tri accessori; deve trattarsi, tuttavia, pur sempre di obblighi riconducibili al contratto di lavoro.

Le sanzioni: i limiti. Le sanzioni, secondo i limiti fissati dall’art. 7 co.4 st.lv. sono quelle della multa consistente nella privazione della retribu­zione fino a 4 ore e della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un massimo di 10 giorni, salvo una riduzione, sia per la multa che per la sospensione, da parte dei contratti collettivi; sono poi preclusi i licenziamenti, o sanzioni espulsive, le sanzioni conser­vative modificative del rapporto, come il demansionamento, il trasferi­mento, salvo ipotesi eccezionali che confermano la generalità del divieto. Nel caso di recidiva, che si ha quando nell’arco dei due anni precedenti vi sia stata ap­plicazione di altre sanzioni, la sanzione da applicare sarà più grave.

L’applicazione della sanzione e l’impugnativa

Per l’applicazione della sanzione, che deve essere tempestiva, non è richiesta la forma scritta, che tuttavia si può ritenere sia sancita come un prolungamento della forma scritta previ­sta per la contestazione.

Anche nel caso di accertamento dell’infrazione il datore potrebbe decidere di non procede­re all’applicazione della sanzione per ragioni di opportunità relative alla gestione di personale; in caso di tolleranza di determinati comportamenti l’esercizio del potere disciplinare, sempre possibile, deve avvenire gra­dualmente, fino a riabituare i dipendenti alla correttezza dei comporta­menti.

L’impugnativa stragiudiziaria e sospensione della sanzione. Il provve­dimento disciplinare può essere impugnato dal lavoratore attraverso la ri­chiesta all’ufficio provinciale del lavoro della costituzione di una collegio di conciliazione ed arbitrato, con l’indicazione del proprio rappresentan­te. La richiesta della costituzione del collegio, che deve avvenire nei 20 giorni dalla comunicazione del provvedimento sanzionatorio, sospende l’efficacia dello stesso provvedimento.

Le scelte del datore e le conseguenze. Il direttore dell’ufficio invita il datore a nominare il proprio rappresentante; se il datore non lo nomina nei 10 giorni o non ricorre entro tale termine all’autorità giudiziaria la san­zione perde definitivamente efficacia. Se il datore designa il proprio rappresentan­te si costituisce il collegio di conciliazione e di arbitrato con la designazio­ne del presidente di comune accordo o, in mancanza, mediante nomina da parte del direttore dell’ufficio del lavoro.

L’alternativa del ricorso al giudice. Anche il lavoratore potrebbe rivolgersi direttamente al giudice del lavoro senza la procedura di conciliazione e di arbitrato; in tal caso, tuttavia, l’ef­ficacia del provvedimento sanzionatorio non viene sospesa. Ciò significa una preferenza dell’ ordinamento per le procedure stagiudiziarie di risolu­zione delle controversie.

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