Alla materia retributiva il legislatore ha dedicato una attenzione particolare in tutte le varie fasi del processo di “privatizzazione”, limitando fortemente l’autonomia negoziale, individuale e collettiva. In linea di principio, il trattamento economico, fondamentale e accessorio, è definito dalla contrattazione collettiva, così stabilendo una espressa riserva di competenza che preclude la possibilità di accordi individuali modificativi da parte dell’amministrazione, poiché questa è tenuta a garantire parità di trattamento contrattuale e ad assicurare comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi.
Questa ultima previsione – unitamente alla disposizione, di portata generale, che impone alle pubbliche amministrazioni di osservare gli obblighi assunti con i contratti collettivi e a quella che attribuisce all’ARAN la rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni nel procedimento di contrattazione – finisce, di fatto, per rendere applicabili erga omnes le clausole dei contratti collettivi aventi ad oggetto la retribuzione. L’autonomia collettiva è, però, soggetta ad un sistema di vincoli e controlli.
A “monte” del procedimento stesso di contrattazione, infatti, le risorse disponibili sono predeterminate attraverso gli strumenti di finanza pubblica; e i contratti collettivi sono tenuti a prevedere clausole che consentano di sospendere l’esecuzione, totale o parziale, in caso di accertata esorbitanza dai limiti di spesa. I trattamenti economici accessori, inoltre, devono essere ancorati a parametri stabiliti direttamente dalla legge (performance individuale, performance organizzativa dell’amministrazione e delle sue unità organizzative, ovvero effettivo svolgimento di attività particolarmente disagiate o pericolose per la salute).
In ogni caso, possono essere riconosciuti soltanto nei limiti quantitativi che la stessa legge predetermina (non più di un quarto dei dipendenti di ciascuna amministrazione può beneficiare del trattamento accessorio nella misura massima prevista dal contratto; non più della metà può goderne in misura superiore al 50% del massimo; alla restante parte non può essere riconosciuto alcun incentivo) e che sono solo parzialmente modificabili dalla contrattazione collettiva.
La disciplina delle mansioni e dello jus variandi resta differenziata da quella dettata per il lavoro privato dall’articolo 2103 del Codice Civile, pur a seguito della recente modifica di quest’ultimo. Comune al settore privato è il principio per cui il dipendente pubblico deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito in base a regolari procedure selettive per la progressione di carriera. Diversi sono, invece, presupposti ed effetti dell’esercizio dello jus variandi, da parte dell’amministrazione, soprattutto in relazione all’ipotesi di assegnazione a mansioni superiori.
Anzitutto, la disciplina speciale continua a prevedere il diritto del lavoratore di essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a mansioni “equivalenti”, ma precisa che l’equivalenza può essere individuata nell’ambito della intera area di inquadramento. Al riguardo, la giurisprudenza ha affermato che nel pubblico impiego vige “un concetto di equivalenza ‘formale’, ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice”. Le mansioni superiori possono essere assegnate al dipendente pubblico in presenza di obiettive ragioni di servizio e purché si tratti di mansioni riconducibili alla qualifica immediatamente superiore, in ipotesi tassative e per periodi limitati.
Precisamente, l’assegnazione di mansioni superiori è consentita nel caso di vacanza di posto in organico, limitatamente ad un periodo non superiore a 6 mesi, prorogabile fino a 12 mesi, durante i quali l’amministrazione ha l’obbligo di avviare le procedure per la copertura del posto vacante, e nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con esclusione dell’assenza per ferie, limitatamente al periodo di durata dell’assenza.
In ogni caso, il dipendente ha diritto, per il periodo di effettiva prestazione, al trattamento (economico e normativo) previsto per la qualifica superiore, ma il superamento del periodo massimo di svolgimento delle mansioni superiori non determina il diritto alla definitiva attribuzione della qualifica corrispondente, poiché le progressioni di carriera da un’area di inquadramento all’altra devono avvenire necessariamente sulla base di concorsi pubblici.
Al di fuori delle menzionate ipotesi tassative, l’assegnazione a mansioni superiori è nulla, onde è che il lavoratore può legittimamente rifiutarla. Tuttavia, in caso di esercizio di fatto di mansioni superiori, al lavoratore è comunque riconosciuto il diritto alle differenze di trattamento economico, mentre il dirigente che ha disposto illegittimamente tale assegnazione, laddove abbia agito con dolo o colpa grave, risponde personalmente del maggiore onere economico sostenuto dall’amministrazione.