Secondo i principi generali, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno subito a causa di quelle condotte del datore di lavoro che configurino inadempimento alla disciplina legale e contrattuale che regola il rapporto di lavoro. Il danno risarcibile è sia quello patrimoniale, comprensivo del danno emergente e del lucro cessante, sia quello non patrimoniale che derivi dalla lesione dei diritti inviolabili della persona. Ed infatti, il riconoscimento di tali diritti contenuti nella Costituzione “configura un caso determinato della legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale”.

Pertanto, anche in assenza di conseguenze patrimoniali, il lavoratore ha diritto al risarcimento dei danni alla salute, alla dignità, all’onore, all’immagine, alla riservatezza e alla professionalità, eventualmente patiti in conseguenza di atti o comportamenti illegittimi posti in essere dal datore di lavoro. Il danno non patrimoniale subito dal lavoratore deve formare oggetto di una valutazione complessiva ed unitaria da parte del giudice.

Possono, in particolare, venire in considerazione: la componente biologica, costituita dalla lesione della integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico-legale, indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità del lavoratore di produrre reddito; la componente esistenziale, costituita dal pregiudizio (oggettivamente accertabile e di natura non meramente emotiva) provocato alle abitudini di vita e alle relazioni socio-familiari del lavoratore (e di conseguenza ai modi in cui la personalità si esprime e si realizza al di fuori delle attività reddituali); la componente morale, costituita dalla sofferenza patita.

Il diritto al risarcimento del danno implica che venga fornita la prova della sussistenza del danno, oltreché del nesso di causalità tra il danno stesso e l’inadempimento del datore di lavoro. Tali principi valgono anche nell’ipotesi di danno alla professionalità, che il lavoratore lamenti di aver subito a causa della condotta del datore di lavoro che lo abbia lasciato inattivo (non consentendogli di svolgere alcuna prestazione di lavoro), ovvero lo abbia assegnato a svolgere mansioni dequalificanti. Ed infatti, anche se l’ordinamento riconosce e tutela il diritto del lavoratore all’esecuzione della prestazione lavorativa e al mantenimento della professionalità acquisita, la lesione di tale diritto non comporta “automaticamente” il verificarsi di un danno.

È, quindi, necessario che la domanda in giudizio contenga le specifiche allegazioni idonee ad individuare la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito, poiché “la violazione di un dovere non equivale a danno e questo non discende automaticamente dalla violazione del dovere”. Solo ove sia stata fornita la prova dell’esistenza del danno, anche mediante presunzioni, l’impossibilità, o la obiettiva difficoltà, di provarne il “preciso ammontare” consente di procedere alla liquidazione del danno stesso con valutazione equitativa.

 

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