Qualora sia accertato un declassamento professionale, per espresso dettato dell’art. 2103 co. 2, si produce una nullità dell’atto o del patto che lo ha determinato, per cui il lavoratore che ne è stato vittima ha diritto a veder ripristinata la situazione precedente od una ad essa equivalente. Il demansionamento, inoltre, configura un inadempimento contrattuale, produttivo di danni risarcibili.

La giurisprudenza, proprio in occasione di questo genere di controversie ha elaborato una sorta di diritto del lavoratore a lavorare, ossia avente ad oggetto la possibilità di rendere effettivamente la prestazione di lavoro. L’opinione tradizionale era che il lavoratore non avesse un diritto soggettivo a lavorare, ma soltanto ad essere retribuito. Corollario di questo era che il lavoratore lasciato inattivo per colpa del datore di lavoro manteneva pur sempre il diritto ad essere retribuito, ma, una volta pagato, non poteva dolersi di altro.

Con l’art. 2103, al contrario, la giurisprudenza ha elaborato una posizione soggettiva che si avvicina molto ad un diritto a lavorare , e questo tramite il ragionamento per cui la tutela della professionalità del lavoratore nei confronti delle ipotesi di sotto-utilizzazione implica anche quella che il lavoratore non venga completamente emarginato dal lavoro. Il lavoratore che sia stato destinatario di un demansionamento, quindi, ha titolo di pretendere in giudizio il risarcimento dei danni per intervenuta lesione della professionalità. Attualmente, in particolare, il risarcimento di danni professionali è tanto frequente da aver indotto la Corte di Cassazione a precisare, contro gli orientamenti che postulavano una sorta di risarcibilità in re ipsa del danno in discorso, la necessità di un’allegazione e di una prova specifica del danno al patrimonio professionale

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