Si discute in ordine al significato dell’espressione “insussistenza del fatto contestato”. L’attenzione del dibattito è concentrata sulla alternativa se per “fatto” debba intendersi soltanto il fatto materiale (ossia la condotta commissiva o omissiva contestata al lavoratore), ovvero il fatto giuridico (vale a dire il fatto materiale comprensivo degli elementi rilevanti per il diritto). In realtà, nessuna delle due tesi è, di per sé, appagante.

Alla tesi del fatto materiale è obiettato che essa potrebbe indurre il datore di lavoro a contestare al lavoratore un fatto privo di rilevanza disciplinare o avente una modesta rilevanza disciplinare, il quale, solo perché sussistente, non comporterebbe la reintegrazione bensì la tutela esclusivamente indennitaria. La tesi del fatto giuridico, invece, se intesa nel senso che esso debba avere tutti gli elementi considerati rilevanti dal diritto per la configurazione delle nozioni legali di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento frusterebbe le finalità delle modifiche legislative, lasciando inalterata la discrezionalità del giudice nell’apprezzamento della gravità della condotta del lavoratore.

Un ragionevole punto di equilibrio sembra essere quello di ritenere che il fatto contestato debba avere ad oggetto un inadempimento agli obblighi contrattuali e che tale inadempimento sia riferibile ad una condotta (commissiva od omissiva) volontariamente posta in essere dal lavoratore. Non è, invece, rilevante che l’inadempimento sia imputabile a colpa o dolo. Questa ricostruzione trova conforto nella lettera e nella ratio della legge, la quale fa riferimento al “fatto” proprio perché intende escludere la discrezionalità e le difficoltà dell’apprezzamento relative all’elemento soggettivo dell’inadempimento.

Per quanto riguarda, poi, la possibilità che il datore di lavoro faccia un uso distorto della legge contestando fatti che costituiscono inadempimento di lieve entità, la soluzione è fornita dalla legge stessa nella parte in cui prevede l’ordine di reintegrazione anche nell’ipotesi in cui il fatto contestato rientri tra quelli che il contratto collettivo o il codice disciplinare hanno ritenuto punibili con sanzioni conservative.

In questa prospettiva, quindi, rientrano nelle “altre ipotesi” di difetto di giustificazione (per le quali è prevista la sola tutela indennitaria) i casi in cui il fatto contestato sia “sussistente” e non sia riconducibile tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi e dei codici disciplinari, ma non sia di gravità tale da configurare la nozione legale di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo. In sostanza, la tutela indennitaria appare applicabile nel caso in cui non risulti dimostrato che l’inadempimento è imputabile a dolo o colpa, ovvero manchi la proporzionalità tra la gravità del fatto contestato e il licenziamento.

In ogni caso, la scelta del legislatore di attribuire rilievo decisivo, al fine di selezionare la tutela applicabile nei licenziamenti disciplinari, alla circostanza che sussista o no il “fatto contestato” non deve ingenerare l’illuministica aspettativa di un accertamento giudiziale che operi come una verifica di tipo scientifico, totalmente al riparo da valutazioni soggettive e discrezionali. Molto spesso, nella pratica, la contestazione disciplinare ha una configurazione complessa, perché può riguardare una pluralità di infrazioni e le singole infrazioni possono essere individuate mediante il riferimento ad una pluralità di elementi modali, spaziali e temporali.

In questi casi, il giudice potrebbe trovarsi di fronte al problema di valutare se è sufficiente l’insussistenza di uno solo degli elementi fattuali che contraddistinguono il fatto o i fatti contestati, per doversi procedere alla reintegrazione, ovvero se è necessario procedere ad una selezione degli elementi rilevanti a tale fine, e, in questo ultimo caso, individuare i criteri utili per operare tale selezione.

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