Come risulta chiaro, la dimensione nazionale è sempre meno importante, o quanto meno decisiva, nell’elaborazione delle politiche del lavoro. I processi come quelli di unificazione europea, attualmente, sono anche un modo di resistere, unendosi per aree omogenee, alla globalizzazione, caratterizzata da un afflusso crescente di formidabili competitori sui mercati che una volta erano appannaggio esclusivo dei paesi economicamente più avanzati.

Non si deve tuttavia pensare che l’unico fattore di mutamento sia la concorrenza dei paesi emergenti. Quella a cui stiamo assistendo, in realtà, è una grande trasformazione del capitalismo globale, trainata da quello nordamericano, in virtù della quale l’enorme ampliamento dei mercati interni ed internazionali sta creando le condizioni strutturali di una prevalenza degli interessi dei consumatori e degli investitori su quelli dei lavoratori. Risulta ormai evidente, quindi, che la globalizzazione è all’origine dei grandi sommovimenti che il diritto del lavoro ha cominciato a registrare sin dagli anni ’90.

Il <<modello sociale europeo>>, fatto si alti livelli di protezione sociale e di alta sindacalizzazione, è infatti stato messo sotto accusa, venendo sempre più imputato per le scarse performance economiche delle rispettive economie. Ad esso venivano contrapposti i maggiori risultati del meno protettivo ma più liberistico modello anglosassone. L’Europa, quindi, ha cominciato a porsi una domanda: come difendere la socialità europea dalla necessità di adeguarsi ai nuovi livelli di efficienza e di competitività imposti dalla globalizzazione?

Nell’ultima fase, le spinte di riforma sono arrivate a toccare non soltanto le politiche occupazionali ampiamente intese, ma lo stesso diritto del lavoro. Prima un Libro verde (2006), poi una Comunicazione della Commissione europea (2007) ed infine una delibera del Consiglio europeo (2008) hanno propugnato interventi di riforma dei diritti del lavoro nazionali, all’insegna dell’obiettivo della flexicurity, formula con la quale si è inteso suggerire che:

  • i diritti del lavoro nazionali dovrebbero accettare di aprirsi alla flessibilità, consentendo cioè una gestione il più possibile flessibile della forza lavoro.

Quanto già fatto su questo terreno è stato importante, ma non sufficiente, dal momento che la flessibilità introdotta ha riguardato soprattutto fasce marginali (lavoratori atipici), risparmiando la maggior parte della forza lavoro. Ciò rischia di provocare effetti di divisione del mercato del lavoro in due fasce, con l’iniqua conseguenza di far sopportare soltanto ad una di esse il peso della flessibilità.

  • il contrappeso sociale, nei confronti di questi mutamenti, non dovrebbe essere la sicurezza intesa come in passato (sicurezza del posto di lavoro), ma una sicurezza fatta di assistenza del mercato del lavoro.

In ogni caso, attraverso la flexicurity, la tematica della riforma del diritto del lavoro è stata ormai posto a livello europeo, per cui i futuri sconvolgimento nazionali, e quindi anche italiani, ne saranno certamente condizionati. Occorre comunque sottolineare che, se è vero che la disciplina ha bisogno di un generale rinnovamento, essa non può essere considerata tout court un fattore di inefficienza, come pretenderebbero certe semplificazioni economico-politiche di segno liberistico.

Alla domanda se la globalizzazione sia positiva o negativa, le risposte sono innumerevoli. Si deve però constatare che essa, al di là degli enormi problemi che lascia aperti o aggrava, sta sottraendo alla povertà enormi quote di popolazione mondiale, cosa che non può comunque lasciarci indifferenti. Dopo di che, a partire dall’esistenza della globalizzazione come dato di fatto, rimangono gli enormi ed irrisolti problemi di come governare i complessi fenomeni in discorso, in mancanza di istituzioni mondiali capaci di avere una sufficiente presa sulla realtà.

Particolarmente importante, comunque, sarebbe che lo sviluppo economico portasse con sé la dote di una crescita dei livelli di protezione e, più in generale, degli standard civili. Si produrrebbe così, su scala globale, il percorso storico che ha caratterizzato la nascita e l’evoluzione del diritto del lavoro, dalla Rivoluzione industriale in poi.

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