Dopo la prima guerra mondiale, per reprimere gli abusi dei mediatori, le associazioni sindacali cercarono in vario modo di assumere il controllo del collocamento della manodopera. In seguito, nell’ordinamento repubblicano, la gestione del collocamento fu assunta dallo Stato. In particolare, con la l. n. 264 del 1949 (poi abrogata) si aprì la fase del monopolio pubblico del collocamento: tale legge, infatti, definiva il collocamento funzione pubblica e vietava qualsiasi attività di mediatori privati, sanzionata come reato.

Venne creata un’imponente struttura amministrativa di controllo del mercato del lavoro, incentrata sui cosiddetti uffici di collocamento , incaricati del compito di tenere le liste di collocamento, nelle quali i lavoratori che cercavano un lavoro dovevano iscriversi per essere poi avviati al lavoro. Questo meccanismo fu rafforzato dallo Statuto dei lavoratori, i cui artt. 33 e 34 (abrogati) estesero ancora di più la regola della richiesta numerica per l’assunzione dei lavoratori: con tale regola, di fatto, i datori di lavoro si vedevano avviato un soggetto che non aveva scelto, ma del quale avevano soltanto indicato il profilo professionale. Tranne alcune eccezioni (es. richiesta nominativa o assunzione diretta da parte del lavoratore), la stragrande maggioranza delle figure professionali doveva essere assunta tramite questa richiesta numerica.

Questo sistema, tuttavia, sebbene fosse animato da intenti di equità, non funzionava, anzitutto, perché era possibile eludere legalmente il meccanismo, attraverso un passaggio diretto da azienda a azienda: difatti un lavoratore, invece di dimettersi o di essere licenziato e di reiscriversi nelle liste di collocamento, poteva transitare da un’azienda ad un’altra, sulla base di contratti diretti fra le stesse.

Cominciò così un periodo di modifiche legislative caratterizzate da ripetuti tentativi di ritocco, i quali, tuttavia, hanno raramente prodotto i risultati sperati:

  • in un primo tempo, ci si è limitati ad ampliare il numero dei casi nei quali si poteva proporre una richiesta nominativa, piuttosto che numerica, e questo, chiaramente, per venire incontro alla pressante richiesta delle imprese di non dover procedere alle assunzioni al buio .
  • in un secondo tempo, con la l. n. 608 del 1996, è stata abolita non soltanto la richiesta numerica, ma anche la stessa richiesta nominativa. In luogo di tale meccanismo è stata introdotta la regola dell’assunzione diretta: non era più necessario passare attraverso la mediazione dell’ufficio di collocamento, ma veniva semplicemente previsto l’obbligo di inviare a tale ufficio una comunicazione concernente alcuni dati relativi al lavoratore (es. nominativo, data dell’assunzione, tipologia contrattuale).

Venne quindi a prodursi una situazione paradossale: il meccanismo del collocamento era stato smantellato, ma rimanevano comunque in vita gli uffici corrispondenti, i
compiti dei quali, tuttavia, si limitavano alla ricezione di notizie di assunzioni già avvenute.

Si è così entrati nell’ultima fase della riforma della disciplina del collocamento, connotata da un tentativo più deciso di rilanciare il sistema, sino a stravolgerne completamente i caratteri. Era da tempo, comunque, che ci si era resi conto della necessità di passare da una logica di collocamento meramente burocratica ad una logica di politica attiva del lavoro, in forza della quale i servizi per l’impiego avrebbero dovuto effettuare interventi attivi:

  • la l. n. 56 del 1987 ha tentato un primo cambiamento in tale direzione, cercando di coinvolgere gli enti territoriali nella gestione del sistema: se la politica doveva essere attiva, infatti, essa non poteva che essere gestita a livello di territorio, e non certo dall’alto.
  • la vera apertura all’era contemporanea dei servizi per l’impiego è riconducibile alla sentenza Job centre della Corte di Giustizia della Comunità europea del 1997.

Una società milanese, appunto la Job centre, era stata appositamente costituita per sfidare il monopolio pubblico, prevedendo come oggetto sociale l’esercizio di attività di intermediazione. Tale società, tuttavia, non poteva essere omologata dal Tribunale di Milano, dal momento che la sua attività, allo stato della legislazione dell’epoca, era illecita. La Job centre, quindi, richiese l’intervento della Corte di Giustizia, sostenendo che la l. n. 264 del 1949 era contraria alle norme del Trattato di Roma che proteggevano la libertà di concorrenza: a suo modo di vedere, infatti, lo Stato, avendo un monopolio pubblico, avrebbe dovuto essere equiparato ad un’impresa che fruiva del monopolio legale di una certa attività. La Corte di giustizia ha infine acceduto a tale opinione, statuendo che il monopolio pubblico del collocamento doveva ritenersi incomparabile con il Trattato di Roma, e ciò in particolare allorché il servizio di monopolio fosse manifestamente inefficiente.

La sentenza, quindi, ha decretato il superamento del regime di monopolio, in un’atmosfera sempre più caratterizzata dalla convinzione che l’apertura ai privati fosse opportuna

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