Per preferenza di legge si intende nell’ambito della competenza legislativa ordinaria il caso in cui la legge prevale sulle fonti di rango inferiore. Tuttavia i rapporti fra le fonti predette si alterano, allorché la costituzione stabilisce, per la disciplina di determinati oggetti, altrettante riserve di legge.

Tali riserve comportano una limitazione della potestà legislativa, eliminando o riducendo quella libera scelta fra una disciplina disposta per legge ed una disciplina demandata dalla legge ad altre fonti, della quale il parlamento è comunemente dotato. In regime di costituzione rigida invece, le riserve di legge vincolano precisamente il potere legislativo; giacché il legislatore che non facesse direttamente fronte al compito in tal modo conferitogli violerebbe le prescrizioni costituzionali.

Qualora la legge istituisse una potestà regolamentare in materia costituzionalmente riservata alla legislazione ordinaria, illegittime sarebbero non solo le norme regolamentari adottate con quel fondamento dal potere esecutivo, bensì le norme legislative concernenti l’attribuzione della potestà medesima.

La Corte Costituzionale ritiene infatti che “il principio della riserva legislativa” sia rispettato quand’anche la materia venga regolata a mezzo di leggi delegate o di decreti-legge. Per asserire il contrario, non basta una generica riserva, ma occorre che si tratti di una riserva di legge formale; tale figura non ricorre se non allorché ci si trovi in presenza di espressi e tassativi riferimenti costituzionali alle Camere del Parlamento o quando, comunque, lo esiga la natura delle delibere legislative in questione.

Più grave è il problema se le riserve di legge riguardino la sola legislazione statale oppure includano anche la legislazione regionale, quanto ai settori di competenza propria delle regioni ordinarie e speciali. In un primo tempo, la Corte Costituzionale aveva senz’altro ritenuto che “la Costituzione si riferisca soltanto alla legge dello Stato”. In un secondo tempo tuttavia, il rigore dell’originario assunto è stato assai temperato: giacché la corte ha riconosciuto che le regioni possono legiferare negli stessi ambiti costituzionalmente riservati alla legge.

Ancor più fondamentale è poi la distinzione fra riserve assolute e riserve relative. Le prime comprendono tutti gli oggetti la cui disciplina debba essere integralmente dettata dalle leggi. Relative sono invece le riserve in vista della quali il legislatore è tenuto a dettare soltanto la disciplina di principio, ovvero a fornire la base legislativa delle conseguenti attività amministrative.

Qualunque sia la natura delle riserve, è da ritenere che il limite stesso presenti un carattere specifico: cioè non sussista al di fuori delle ipotesi in cui sia puntualmente riscontrabile. Anche in questo senso può ben dirsi che vigano riserve implicite, pur dove la Carta costituzionale non rimandi alla legge. Vero è che in dottrina si suole ragionare di un generale principio di legalità dell’amministrazione; ma il principio medesimo non deve essere confuso con le riserve di legge.

Innanzitutto si dimostra dubbia e controversa la stessa portata della legalità di cui si tratta: taluni la intendono in senso puramente formale; altri affermano che ogni potere amministrativo dovrebbe trovare puntuale fondamento in una norma attributiva: altri ancora ritengono indispensabile l’interpositio legislatoris, cui dunque spetterebbe di fondare ed individuare tutti i potere in questione; e finalmente vi è chi si spinge fino al punto di considerare costituzionalmente indispensabile che il legislatore prestabilisca lo schema di ogni attività amministrativa, intendendo pertanto la legalità in un senso sostanziale e traducendola in un limite delle leggi stesse.

Stando al diritto “vivente”, la legalità può dunque definirsi come un limite della funzione amministrativa e non come un limite della funzione legislativa dello Stato.

 

 

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