Analizzeremo ora il periodo che va dal XVI al XVIII secolo, sino alla rivoluzione francese. Nel primo intervallo di tempo si manifesta il modello della monarchia assoluta. Per quanto si cerchi di distinguere i primitivi Stati patrimoniali dai piĂą perfezionati Stati di polizia, il divario intercorrente fra essi sarebbe solamente di ordine quantitativo: lo Stato di polizia non rappresentando altro che la fase illuministica (o razionalizzata) dello sviluppo della monarchia assoluta, mentre lo Stato patrimoniale ne rappresenterebbe la fase empirica.
Nello Stato patrimoniale traspaiono ancora concezioni e s’impongono ancora normative di stampo privatistico, giacché non sussiste la differenziazione, fondamentale nelle forme più evolute dello Stato moderno, fra diritto privato e diritto pubblico. In particolare non esiste un diritto amministrativo e lo stesso stato è considerato patrimonio del re. In questa luce, il territorio appartiene al monarca. Anche le relazioni che passano fra il re ed i sudditi stessi riflettono la mentalità medievale: re e sudditi si ritengono infatti legati da un vincolo contrattuale, ora formalizzato, come nel caso del patto costituito dalla Magna Charta, ed ora tacito o implicito. Ed analogamente i soggetti che esercitano le funzioni esecutive e giudiziarie non sono funzionari dello Stato ma del re.
Nel corso dello stesso XVII secolo e con maggiore evidenza nel 1700, almeno quattro grandi Stati europei (Francia, Spagna, Austria e Prussica) ed altri stati minori (come in Italia il Regno di Sardegna e quello di Napoli) si trasformano per altro in Stati di polizia. Ma l’espressione polizia non deve trarre in inganno, poiché in questo contesto essa non riguarda la pura e semplice tutela dell’ordine pubblico, bensì coincide assai più largamente con il termine politica; ed in ultima analisi significa attività di governo, libera nella scelta dei fini oltre che dei mezzi. Ben prima e comunque indipendentemente dalla codificazione, in tutti gli Stati di polizia si registra però una grandiosa espansione dell’intervento statale.
Non a caso, gli studiosi di quel tempo ritenevano che la polizia si estendesse sui seguenti oggetti: la religione, la disciplina dei costumi, la sanità , l’alimentazione, la sicurezza e la tranquillità pubblica, la viabilità e gli altri lavori di interesse pubblico, le scienze e le arti, il commercio, le manifatture e le industri in genere… oltre all’ordinamento di tutte le forme di lavoro dipendente. Negli Stati più piccoli tali concezioni fanno sì che il sovrano si spinga fino al punto d’intromettersi personalmente negli aspetti più privati della vita dei suoi sottoposti, quali i rapporti famigliari e la moralità dei comportamenti; tanto che gli stati di polizia possono ben considerarsi come prototipi degli Stati totalitari, in quanto rivolti ad organizzare l’intera vita di coloro che vivono nel loro territorio.
Mentre gli Stati patrimoniali si limitavano a curare l’esercizio di compiti essenziali, quali l’amministrazione della giustizia e la difesa dalle aggressioni esterne, questi nuovi ordinamenti danno luogo ad un articolatissimo diritto pubblico dell’economia: sia nel senso di regolare gli scambi interni ed internazionali, sia nel senso di costituire in via diretta vere e proprie manifatture pubbliche. A questa dilatazione dei compiti statali fa necessario riscontro un accrescimento senza precedenti della burocrazia. Ed all’interno dell’apparato burocratico centrale comincia a prospettarsi una precisa suddivisione secondo competenze, che rappresenta già il primo abbozzo dei ministeri del XIX e XX secolo.
Di qui si desume che lo Stato di polizia si presenta con proprie caratteristiche concettuali, rispetto alla figura dello Stato patrimoniale: distinguendosi dal suo precedente immediato sia per la completezza dell’ordinamento, sia per le finalità generali, comprovate dall’ampiezza dei settori e dalla varietà delle forme di intervento pubblico, sia per la conseguente articolazione dell’apparato burocratico. Il più netto motivo di differenziazione consiste nella personalizzazione di questo apparato, che si concretizza nello Stato-soggetto. Nella sua prima fase di sviluppo lo Stato come persona giuridica a sé stante si risolve nel fisco, vale a dire nel patrimonio statale, tramite il quale lo Stato medesimo può far fronte alle proprie obbligazioni.
Diretta conseguenza di questo tipo di fenomeni è l’istituzione dei primi tribunali camerali, per mezzo dei quali ai sudditi si apre la via dei ricorsi giurisdizionali per ottenere il risarcimento del danno subito allorché l’amministrazione statale li abbia lesi in un loro diritto. Si manifesta in tal modo il fondamentale principio della legalità dell’amministrazione stessa, che non è più completamente libera bensì vincolata al rispetto di determinate forme ed al perseguimento di determinati scopi, prestabiliti attraverso le leggi. Non bisogna tuttavia esagerare l’importanza delle garanzie fornite ai sudditi, mediante i ricorsi contro gli atti amministrativi illegittimi.
Non bisogna esagerare l’importanza delle garanzie fornite ai sudditi, mediante i ricorsi contro gli atti amministrativi illegittimi: infatti i provvedimenti contro i quali viene dato ricorso consistono unicamente negli “atti di gestione” e non negli “atti d’imperio”: il che sta a significare che soltanto l’amministrazione di diritto comune è sindacabile dal giudice amministrativo, in antitesi a quella ispirata dalla ragion di Stato.
In secondo luogo, la garanzia della legalità dell’azione giurisdizionale finisce per essere eminentemente relativa: dato che pienamente soggetti alle leggi sono solo i livelli gerarchicamente inferiori della pubblica amministrazione.
In terzo luogo l’istituzione di tribunali amministrativi non si verifica in tutti gli Stati dell’epoca. Negli Stati di polizia del XVIII secolo non mancavano, in effetti, zone di libertà delle più varie specie, rappresentate da privilegi di questo o di quel ceto, da immunità e da franchigie personali e territoriali.
Ma in linea di massima tutte queste situazioni dipendevano dal beneplacito regio; ed in linea di fatto esse smentivano che di fronte al re tutti i sudditi fossero egualmente indifesi.