Le consuetudini rientrano per eccellenza tra i fatti normativi; le consuetudini stesse tendono a coprire l’intero campo del diritto non scritto, essendo pressoché incontroverso che alle norme consuetudinarie non corrispondono disposizioni del medesimo genere. Ma di tali fonti non ricorre neanche il nome, nelle varie disposizioni costituzionali e legislative. La costituzione non ne tratta in modo esplicito; le stesse preleggi ragionano solo degli “usi”, servendosi di una espressione riduttiva. In nomen “usi” lascia unicamente intendere perché le consuetudini rientrino appunto tra i fatti anziché tra gli atti normativi.

Alla base del formarsi e del permanere di queste fonti non possono mancare le condotte ed i veri e propri atti, posti in essere da coloro che osservano una certa norma consuetudinaria. Per definizione, tuttavia, il singolo atto conforme ad una consuetudine non realizza mai lo scopo di far si che viga la consuetudine stessa. Occorre in primo luogo che sia riscontrabile l’usus, cioè la costante ed uniforme ripetizione di un comportamento, più o meno protratta nel tempo a seconda dei contenuti. Ed è in questo senso che si suole parlare d’involontarietà.

Vero è, specialmente nel campo delle consuetudini costituzionali, che per generarle può bastare un precedente, ribadito in pochissimi casi dai soggetti politici a ciò interessati; ma in queste stesse ipotesi ciò che ne risulta è sempre un fatto. Se mai si riduce di molto la cosiddetta diuturnitas, ossia la durata necessaria perché le norme in esame si consolidino ed entrino in vigore. Per un altro verso, può talvolta alterarsi la stessa costanza dell’usus, dal momento che si danno vari casi di ripetizione “discontinua”.

Il dato della ripetizione è però insufficiente ad individuare gli usi normativi, separandoli dall’eterogeneo complesso di regole sociali non produttive di diritto. Dal momento che l’usus è riscontrabile alla radice di tutti questi fenomeni, per distinguerli occorre fare ricorso ad un secondo elemento costitutivo delle norme consuetudinarie, che viene per lo più risolto nell’opinio juris et necessitatis; cioè nella convinzione che il loro comportamento sia giuridicamente dovuto. Si è sostenuto che l’opinio sarebbe il frutto di un circolo vizioso oppure di un errore, dal momento che essa non avrebbe sensi in vista di norme che non fossero già in atto.

Si può tuttavia replicare che resta il problema del come differenziare gli usi normativi da quelli non normativi; ed il giurista non può fare a meno di tentare una risposta, trattandosi di stabilire fin dove giunga l’ordinamento giuridico e dunque lo stesso diritto. In secondo luogo al pari dell’usus, anche l’opinio va fatta consistere in una convinzione collettiva e non individuale. Determinante è invece la circostanza che il corpo sociale interessato da una consuetudine avverta la giuridica rilevanza dell’uso in questione, ossia l’attitudine di esso a far parte integrante dell’ordinamento giuridico. Il che ha fatto dire che “l’opinio va ricercata anzitutto e soprattutto negli altri”.

Per converso, le consuetudini cessano di vigere allorché vengono meno l’usus oppure l’opinio, od entrambi ad un tempo. La desuetudine ovvero il formarsi d’una consuetudine contraria valgono dunque ad abrogare le norme consuetudinarie.

 

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