Le impugnative esercitabili dallo stato si presentano, però, nettamente differenziate da quelle spettanti alle regioni. Il primo tratto distintivo riguarda il tempo in cui sono proponibili i rispettivi ricorsi: giacché il governo può agire unicamente in via preventiva, impugnando leggi regionali non ancora perfette, nei quindici giorni “dalla data in cui il presidente del consiglio dei ministri ha ricevuto la comunicazione dal presidente della giunta regionale; mentre le regioni debbono impugnare le leggi in via successiva entro il perentorio termine di trenta giorni dalla loro pubblicazione.

Di regola, dunque, gli atti impugnati dallo stato non sono ancora muniti della promulgazione ad opera del presidente regionale. L’effetto specifico di queste impugnazioni consiste, nel precludere la promulgazione delle leggi in esame, fino a quando la corte non si sia pronunciata; ed ove ne venga dichiarata l’illegittimità costituzionale, non trova applicazione il primo comma dell’art. 136 Cost., ai sensi del quale la legge ritenuta illegittima “cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.

Un secondo tratto distintivo ha invece riguardo ai motivi deducibili o ai vizi denunciabili per mezzo dei ricorsi statali e regionali. Quanto al governo della repubblica l’art. 127 prevede espressamente che la legge suscettibile di essere rinviata al consiglio regionale “ecceda la competenza della regione o contrasti con gli interessi nazionali o con quelli di altre regioni”.

Ma la corte costituzionale ha replicato che “per competenza legislativa attribuita alla regione deve intendersi la sfera entro la quale la stessa può legiferare, sfera che trova i suoi limiti nelle stesse norme costituzionali attributive della potestà”: dal che la conseguenza che può essere denunciato in questa sede qualunque contrasto con la costituzione.

Appunto in tal senso si afferma che lo stato agisce “a tutela dell’ordinamento giuridico complessivo”; che in altre parole i ricorsi governativi sono a tali effetti lo “strumento dell’unità della repubblica”; che il conseguente giudizio della corte forma perciò l’ultima fase di un procedimento di controllo sulla legge regionale, in cui si manifesta la superiorità dello stato nei confronti della regione.

L’unico limite concernente i motivi dei ricorsi del governo riguarda, perciò, la necessaria corrispondenza tra i vizi denunciati in sede di rinvio e quelli che si prestano a venire successivamente sottoposti all’esame della corte. Ben diversamente, i ricorsi regionali avverso leggi dello stato non possono basarsi se non sulla pretesa invasione o lesione delle attribuzioni proprie della regione ricorrente. Tali azioni sono proponibili “quando una regione ritenga che una legge o un atto aventi forza di legge della repubblica invada la sfera della competenza ad essa assegnata dalla costituzione”.

Con questo fondamento la giurisprudenza costituzionale ha quindi ragionato di un indispensabile interesse a ricorrere. Così la corte stessa ha richiesto che l’interesse risulti concreto, ossia che l’impugnazione regionale si presti ad avere “pratico effetto”. Del pari, sono stati ritenuti inammissibili i ricorsi non sorretti da un interesse attuale. Occorre notare però che il requisito dell’invasione di una qualche competenza regionale non è presentemente inteso in senso stretto.

Si danno alcuni statuti speciali che fanno capire come le regioni ricorrenti possano appellarsi a tutte le disposizioni statutarie riguardanti il loro assetto ed i loro rapporti con lo stato. Ciò che più conta, la giurisprudenza è ormai costante nel senso che basti, a rendere ammissibile il ricorso, prospettare alla corte qualunque tipo di “menomazione” o “lesione” delle proprie attribuzioni costituzionalmente garantite.

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