La seconda repubblica tedesca ha superato i 50 anni di esperienza democratica e gestito i delicati processi della riunificazione, dopo 12 anni di nazismo e 4 anni di occupazione militare. Era evidente che si marciava a tappe forzate verso una costituzione imposta dagli alleati. Non si tennero in gran conto i problemi legati alla legittimazione del nuovo ordine politico, non venne allestita una assemblea costituente.
Per il momento forti motivi sconsigliavano il ricorso al referendum approvativo. Il partito comunista si sarebbe battuto contro le imposizioni alleate creando così non pochi problemi.
Si scelse la via della legittimazione debole: si scelse una più dimessa legge fondamentale (Grundgesetz). Ad approvare la legge fondamentale fu la ratifica dei Lander. Ma le iniziali perplessità sul destino istituzionale tedesco erano legate anche a una pesante eredità storica. Quella che veniva evocata era la cronica debolezza del liberalismo in Germania.
Nella storia tedesca fino a Weimar è mancato un governo parlamentare. Anche i partiti venivano declassati a fazioni, a fenomeni degenerativi che avrebbero acuito la frammentazione. Mentre gli interessi organizzati in partiti sono avvertiti come distruttivi, gli interessi rappresentati nei ceti sono salutati come la base della coesione.
Il pluralismo dei gruppi privati con autonoma risonanza pubblica non era una integrazione del parlamentarismo ma una strutturale insidia a ogni velleità di definire una rappresentanza parlamentare. Si trattava di un vero e proprio “pluralismo antidemocratico” che attribuiva agli interessi una vocazione politica autonoma. La borghesia tedesca era incapace di giocare un ruolo politico autonomo sottraendo così terreno all’elemento militare, ai miti della potenza esterna.
Dal 1871 al 1918 si sperimentò un reggimento monarchico nel quale l’elemento costituzionale e liberale appariva tiepidamente e si configurava sempre come subordinato al continuo soprassalto autoritario. Quello tedesco era solo un miscuglio mal riuscito di regno militaresco prussiano, stato federale e suffragio universale.
Sotto il profilo formale, l’imperatore o Kaiser era il capo dell’esecutivo. Non era previsto peraltro alcun rapporto fiduciario tra la maggioranza parlamentare e il governo. La debolezza dei partiti, e la fragile istituzionalizzazione del conflitto politico, conferivano al parlamento un puro ruolo ornamentale.
Non c’era neanche l’ombra di un regime parlamentare, sia pure in via di assestamento. La peculiarità della storia tedesca è di aver avuto una modernizzazione senza le istituzioni politiche della moderna libertà.
I 14 anni coperti dalla repubblica di Weimar sono stati l’unico esperimento di un governo democratico con base parlamentare compiuto in Germania. La repubblica del resto fu, sin dall’inizio, afflitta da una paralizzante sindrome della sconfitta. La coalizione dominante si rivelò incapace di risolvere i peculiari problemi politici di una transizione alla democrazia.
Parevano in preda a un cieco spirito autodistruttivo che ha spianato la strada alla “legale” presa del potere da parte di Hitler. Nelle lodevoli intenzioni dei costituenti, parlamento e capo dello stato dovevano essere due centri di autorità capaci di neutralizzarsi a vicenda assicurando così una condizione esemplare di equilibrio.
La realtà vide la comparsa di presidenti di partito che dall’unzione popolare traevano confronto alla loro volontà di diventare attori di primo piano del gioco politico accantonando ogni velleità di essere superpartes custodi della costituzione. Quello di Weimar non era un vero e proprio parlamentarismo.
Verso l’alto operavo la spinta accentratrice del presidente provvisto di rilevanti poteri, di mezzi di aggiramento e di armi di dissuasione e di lotta. Verso il basso premeva l’invocazione del pronunciamento popolare diretto, difficilmente compatibile con il requisito aureo della forma di governo parlamentare che reclama un unitario indirizzo di governo fatto valere da una maggioranza.
Nel 1930 si compì una significativa evoluzione in senso presidenziale del sistema. Hindenburg licenziò il cancelliere socialdemocratico e nominò al suo posto il leader del centro Bruning che si fece largo solo con un massiccio ricorso a decreti presidenziali. L’ostilità al partito però finiva con il fare terra bruciata attorno all’indispensabile supporto di un governo parlamentare.
La cattiva prova offerta dal semi presidenzialismo tra le due guerre ha convinto gli alleati a ricercare per la Germania una prospettiva neo parlamentare. La legge fondamentale tedesca taglia i poteri cresciuti a dismisura nei rami alti dell’albero di Weimar e cerca di rinvigorire le prestazioni del circuito parlamento governo.
La potatura delle prerogative presidenziali si spinge fino a rendere il capo dello stato tedesco il più disarmato presidente rintracciabile in Europa: gli venne tolto il potere di ricorrere al referendum e gli fu affievolito il potere di scioglimento. La nomina del cancelliere è una decisione che è saldamente in mano dei partiti, purché ovviamente il responso elettorale abbia fornito esisti trasparenti.
In fondo è proprio il cancelliere la figura chiave del sistema politico. Eppure il cancelliere non è l’arbitro assoluto del governo. Deve fare i conti con la realtà della coalizione che ospita partiti diversi e richiede periodiche riunioni. Il cancelliere non può andare anticipatamente al voto sfruttando la congiuntura più favorevole.
Il meccanismo tedesco del doppio voto introduce una tendenza manipolatoria favorita dal cosiddetto voto diviso. In base ad esso, l’apparente personalizzazione del a proporzionale si traduce poi in complessi meccanismi di scambio tra i partiti. Per consentire al partito alleato di superare la soglia del 5%, si ricorre a “prestiti” di secondi voti. In cambio, il partito più grande racimola voti del partito alleato nei collegi uninominali.
Il cancelliere Kohl, eletto con la maggioranza assoluta del Bundestag, chiede dopo qualche mese la fiducia con l’evidente intenzione di farsela negare proprio dai suoi sostenitori. Si tratta del più prosaico tentativo di andare subito al voto sfruttando il plusvalore politico associato all’effetto-cancelliere.
Kohl nel Bundestag dispone della maggioranza, ma vuole la ratifica elettorale. Il suo governo nasce con una tipica operazione parlamentare e vuole riparare al deficit di legittimità riattivando, con l’unzione popolare, quell’affluente plebiscitario che scorreva a Weimar e che la repubblica di Bohn intendeva prosciugare.
Non deve comunque sfuggire che la democrazia “immediata”, che è alla base di un rapporto di responsabilità politica tra governo e corpo elettorale, è il prodotto di un formato tendenzialmente bipartitico del sistema politico. Il cancellierato non è un fatto istituzionale, ma il risultato di una evoluzione politica per sua natura labile.
La carta di Bohn ha definitivamente posto sullo stesso piano giuridico e di valori il parlamento e il governo. Il governo non è più un centro di potere da cui difendersi. La condizione del parlamento tedesco non è comunque assimilabile a quella del parlamentarismo zoppo del periodo di Weimar.
Una ottocentesca centralità del parlamento è difficilmente riproponibile. Elettori, parlamento e governo in un sistema tendenzialmente bipartitico si inseriscono entro un circuito unitario che consente di far valere un vincolo di programma. Il parlamento si dedica a funzioni più tecniche che politiche.
Secondo la dottrina tedesca, le funzioni del parlamento sono quelle legislativa, di controllo, di legittimazione del governo, di rappresentanza e di comunicazione. Una rigida disciplina di partito è ovunque ritenuta essenziale per la sopravvivenza dei governi e per l’attuazione dell’indirizzo politico di maggioranza.
Si discute molto anche in Germania sullo statuto dell’opposizione, sul diritto alla pari opportunità del governo, sui diritti di partecipazione, convocazione e informazione da riservare all’opposizione. Sotto il profilo formale-costituzionale manca uno statuto dell’opposizione.
Con la riforma del 1969, subito dopo il cancelliere, al Bundestag prende la parola il capo dell’opposizione e non più un esponente del primo partito. Tocca al leader dell’opposizione sfidare il cancelliere in carica lavorando così come responsabile capo dell’opposizione che si candida al futuro governo del paese.
Nel rendimento del sistema politico esercita un peso anche la struttura bicamerale che dà corpo al federalismo tedesco, fortemente sponsorizzato dagli alleati. Richiesto dal centro, l’ordinamento federale è ben presto diventato uno strategico strumento della SPD che controllava la maggioranza dei Lander. Risulta molto proibitivo stabilire cosa a rigore si sottragga integralmente alla competenza del governo federale.
È difficile individuare settori nei quali il governo federale no possa intervenire. Senza politiche condivise tra centro e regioni risulterebbe tuttavia arduo attuare le principali politiche pubbliche. Il parlamento resiste perché resiste il partito. Prima di diventare un organo dello stato, il partito ha dovuto vedersela con un parlamento costruito in nome della nazione e della indipendenza del singolo deputato dalle “frazioni”. Questo non significa che ci sia una identità di stato e partito.
Gli studiosi raffigurano quello tedesco come bipolares mehrparteien-system. Secondo Sartori, il fondamento del tripartitismo funzionante di tipo tedesco è la decisione della corte costituzionale di mettere fuori legge nel 1956 i comunisti e nel 1952 i nazisti. Il rasoio della corte viene attivato sulla base della proclamata coincidenza di legalità e legittimità. Ciò autorizza a colpire funzionari pubblici che abbiano credenze contrastanti con quelle dello stato esistente.
Il sistema tedesco non è nato bipartitico. Lo è diventato anche grazie alla legge elettorale imposta dagli alleati. La elevata frammentazione conviveva con macroscopici fenomeni di nomadismo parlamentare. Nell’arco di tempo che va dal 1949 al 1953, il 22% dei deputati cambiò gruppo parlamentare.
A partire dagli anni 60 si stabilizzò un sistema a 3 partiti che è durato fino al 1983. questa evoluzione moderatamente multipartitica dà la prova della provvisorietà del funzionamento del modello bipolare in Germania. È possibile che dal voto esca un parlamento senza alcuna maggioranza o con maggioranze di coalizioni più ampie di quelle finora conosciute.
Nel primo caso, verrebbe inferto un colpo al mito della democrazia di investitura che “elegge” direttamente il governo e il cancelliere. Nel secondo caso, il parlamento acquisterebbe un pero maggiore di quanto accada in presenza di maggioranze disciplinate e coese. Quando nessuno ha la maggioranza, il voto popolare non ha eletto il leader. La parola spetta pertanto al capo dello stato.
Fino alla riunificazione, il meccanismo elettorale ha funzionato così: ogni elettore dispone di due voti. Il primo va al candidato del collegio che risulta eletto con maggioranza relativa. Il secondo voto, quello decisivo poiché determina il numero dei seggi che complessivamente spetta al partito, è espresso in favore di liste bloccate. Per avere seggi occorre aver riportato il 5% dei suffragi su scala nazionale.
La formula tedesca è un sistema proporzionale sul piano dei risultati, ed è misto soltanto nella procedura di selezione. Quello che conta è il sostanziale bipartitismo. Se venisse a mancare questo requisito della costituzione materiale, si risveglierebbe persino il potere presidenziale. Qualcuno ha parlato a proposito del sistema politico tedesco di “bipolarismo intermittente”.
Il tramonto della vecchia struttura sociale fordista ha comportato una tendenziale intellettualizzazione dei partiti. La costituzionalizzazione del partito lo rende attore esclusivo del gioco politico. La stessa personalizzazione della leadership non scalfisce la rilevanza delle strutture organizzative. Il ruolo degli organismi di partito risulta così forte da determinare anche una stretta relazione tra politica e amministrazione.