Le Camere del parlamento non sono dotate soltanto dell’autonomia organizzativa, bensì dispongono di un’ampia autonomia normativa ed organizzatoria, che consente loro di disciplinare l’assetto ed il funzionamento rispettivo. Tale autonomia ritrova oggi il suo fondamento nella stessa carta costituzionale; poiché da una parte l’art. 64 primo comma Cost. dichiara che “ciascuna camere adotta il proprio regolamento”; dall’altra l’art. 72 precisa che al regolamento spetta di determinare le procedure di approvazione dei disegni di legge in seno alle camere stesse.

Il che determina una competenza esclusiva, rafforzata dalla previsione che le Camere approvino le rispettive norme regolamentari “a maggioranza assoluta”. All’autonomia normativa ed organizzatoria si ricollega l’autonomia contabile, con la conseguente esenzione delle camere dai giudizi spettanti in materia alla corte dei conti. Del pari è su questa base che si regge l’autodichia delle camere medesime, onde i regolamenti parlamentari riservano agli uffici di presidenza le decisioni sui ricorsi che attengano allo stato ed alla carriera giuridica.

Analoghe conseguenze discendono dall’art. 66 Cost., che affida invia esclusiva ad ogni camera il compito di giudicare “dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte d’ineleggibilità e d’incompatibilità”; poiché, se non vi fosse la norma costituzionale sulla verifica dei poteri, il compito in questione spetterebbe ai giudici amministrativi.

È indubbio che la previsione dell’art. 66 rappresenta un anacronismo e ha dato luogo a gravi ingiustizie (sebbene perpetrate nell’ambito di ciascun singolo gruppo parlamentare, senza ledere un partito a vantaggio di un altro): gruppo parlamentare senza ledere un partito a vantaggio di un altro): talora infatti, i giudizi delle camere sono stati a tal punto arbitrari, da far registrare alcuni casi di candidati che, pur avendo ottenuto un maggior numero di voti rispetto a chi già sedeva in parlamento, non sono stati dichiarati eletti.

Il giudizio sulla regolarità delle operazioni elettorali spetta alla giunta delle elezioni, che agisce per lo più su ricorso di un interessato ma può anche attivarsi d’ufficio. Qualora la giunta concluda che non vi è stato nulla d’irregolare emette dichiarazione di convalida. Se invece la contestazione è per essa fondata, la giunta si limita ad istruire la questione, sulla quale l’assemblea delibera successivamente.

Tutt’altro che inattuale, viceversa, è la garanzia derivante da quell’art. 67 Cost., per cui “ogni membro del parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato; sicché ne deriva il generale divieto del mandato imperativo. Tuttavia l’art. 67 Cost. non rappresenta affatto un relitto storico, ma resta ancora applicabile a diversi notevoli effetti, sia nei rapporti fra gli elettori e i parlamentari sia nei confronti dei partiti politici cui questi appartengono all’atto della loro elezione.

Quanto agli elettori, la norma in esame vale ad escludere la legittimità di una legge elettorale che prevedesse l’anticipata cessazione dall’ufficio di un deputato o di un senatore, in virtù di un voto di revoca del corpo elettorale interessato, secondo il modello del recall, istituito in alcuni stati degli USA. Ma la disposizione costituzionale ha lo scopo e l’effetto di impedire che i legami stessi assumano un giuridico rilievo; tanto è vero che rimangono privi di qualunque efficacia gli impegni eventualmente sottoscritti dai candidati, che li obbligherebbero a dimettersi nell’ipotesi che il loro partito lo richieda.

In realtà la ratio dell’art. 67 non consiste nel consentire ai parlamentari di frodare i loro elettori, mutando arbitrariamente di avviso o di bandiera nel corso della legislatura; ma il più delle volte, alla loro base si ritrovano scissioni registratesi nell’ambito della stessa formazione politica interessata.

Bisogna avvertire che la funzione e la portata delle immunità parlamentari devono essere distinte, a seconda che si abbia di mira il primo comma oppure i due commi successivi dell’art. 68 Cost. Nell’un caso si tratta di quella che viene abitualmente definita la prerogativa dell’irresponsabilità. In vista della quale non sono sindacabili e sanzionabili le opinioni espresse e i voti dati dai membri delle camere nell’esercizio delle loro funzioni. Nell’altro dei due casi invece, viene in questione la prerogativa dell’inviolabilità, che non si limita affatto a concernere gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni in esame, ma è al tempo stesso più ristretta della prima immunità.

Per ciò che riguarda l’irresponsabilità. Essa è chiaramente stabilita in vista di un più libero esercizio dei compiti spettanti ai deputati o ai senatori. Ben altro è invece il discorso da fare sulle autorizzazioni previste dal secondo e dal terzo comma dell’articolo in esame. Prima della recente riforma, l’art. 68 riservava a ciascuna camera la potestà di autorizzare o meno i procedimenti penali a carico dei rispettivi appartenenti, per qualsiasi tipo di reato. Nella prassi ne era derivata la tendenza a negare l’autorizzazione.

Di più: accadeva spesso che le camere non si pronunciassero affatto, lasciando trascorrere inutilmente l’intera legislatura. Sicché si poteva ben dire che il vecchio testo dell’art. 68 fosse l’espressione di un privilegio, utilizzato a favore degli interessi personali dei parlamentari, piuttosto che di una prerogativa propriamente detta. La cosiddetta questione morale ha pertanto indotto le Camere stesse ad effettuare un drastico ridimensionamento dell’inviolabilità parlamentare.

 

 

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