Gerarchia e competenza quali criteri concorrenti di sistemazione della attuali fonti normative

Dal 1948 in poi, i primi tentativi dottrinali di sistemazione tendono pur sempre a mettere in luce i tradizionali “rapporti di parità e gerarchia”. Ed effettivamente alcune tra le nuove fonti sono ancora sistemabili per mezzo del criterio gerarchico. In sintesi si avverte che la Costituzione repubblicana configura un vasto ed eterogeneo complesso di fonti rette dal criterio della competenza piuttosto che dal criterio gerarchico: giacché specialmente, varie norme costituzionali sottraggono materie od oggetti o rapporti del più vario genere alla competenza della legge statale ordinaria, configurando in tal modo altrettante fonti normative che non sono né inferiori né parificate né superiori al confronto con la legge medesima, bensì differenziate per l’ambito di attività normativa spettante ad ognuna di esse.

Più in generale, sul criterio della competenza si fondano le fondi atipiche: ravvisabili ogniqualvolta si registri una “scissione” tra la forza attiva e la forza passiva. Si pensi alle leggi dei Patti Lateranensi, che appunto in vista delle intervenute intese fra l’Italia e la Santa Sede “non richiedono procedimento di revisione Costituzionale”

La Carta Costituzionale continua comunque a servirsi di espressioni che comportano il permanere d’un qualche rapporto gerarchico: quali sono la “forza di legge” e il “valore di legge”, che nel linguaggio costituzionale formano una vera e propria endiadi. In secondo luogo, una gerarchia delle fonti suole tuttora venire presupposta non solamente allorché sono poste a confronto la Costituzione e tutte le fonti “costituite” da essa, ma anche quando si ragiona dei rapporti fra le leggi ed i regolamenti.

 

La costituzione

La Costituzione rappresenta la fonte suprema, condizionante ogni altro atto e fatto normativo, senza mai essere condizionata. Lo dimostra in effetti il carattere rigido della Carta del ’47, modificabile attraverso le sole procedure previste dall’art. 138 Cost.

Vero è che la presente Carta costituzionale italiana non appartiene al genere delle costituzioni brevi, peculiari del secolo scorso, che si limitavano a considerare gli aspetti essenziali dell’organizzazione dei pubblici poteri. Si tratta, al contrario, di un documento classificabile senz’altro fra le Costituzioni lunghe; e ciò non tanto in vista dei suoi 139 articoli, quanto in conseguenza degli oggetti che essi riguardano.

Anziché considerare il solo assetto dello Stato-apparato e degli altri enti pubblici costituzionalmente rilevanti, la Costituzione italiana dedica la quasi totalità dei suoi principi fondamentali e l’intera prima parte al riconoscimento ed alla disciplina dei diritti spettanti ai cittadini, statuendo una serie di proclamazioni e di garanzie del tutto nuove rispetto a quelle desumibili dallo Statuto albertino.

A questi effetti si è prospettato il dubbio se le disposizioni costituzionali valgano tutte a dettare altrettante norme giuridiche ovvero si riducano, almeno in certi casi, a manifesti politici del preconizzato Stato sociale, che in sé non contribuirebbero a comporre l’ordinamento. Ma occorre aggiungere che varie norme costituzionali di carattere organizzativo, contenute nella parte seconda della Costituzione, esigono di essere integrate dal legislatore per divenire compiutamente applicabili. Anche in quest’ultimo senso pareva pertanto che la Costituzione, per alcune sue parti, avesse quale unico destinatario il Parlamento, non ponendo norme che fossero senz’altro imperative a tutti i loro possibili effetti.

Le norme programmatiche sono norme dirette dal legislatore che ne deve curare l’attuazione. Nell’ambito delle norme precettive si pensava invece che alcune fossero ad applicazione diretta ed immediata, altre ad applicazione differita; ed anzi avvertirono che, accanto alle norme comunque precettive, stavano le disposizioni puramente direttive, volte “a indicare un indirizzo al legislatore futuro”, tanto da non formare “vere e proprie norme giudiche”.

 

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