I modelli organizzativi

La società per azioni si caratterizza per la presenza di tre distinti organi:

1) l’assemblea dei soci, organo con funzioni esclusivamente deliberative le cui competenze sono per legge (artt. 2364 – 2365) circoscritte alle decisioni di maggior rilievo della vita sociale.

2) l’organo amministrativo, cui è devoluta la gestione dell’impresa sociale e che nello svolgimento di tale funzione ha per legge ampi poteri decisionali. Gli amministratori hanno inoltre la rappresentanza legale della società e ad essi spetta il compito di dare attuazione alle deliberazioni dell’assemblea;

 3) l’organo di controllo interno, con funzioni di controllo sull’amministrazione della società.

Per quanto riguarda l’amministrazione e il controllo, il codice civile del 1942 prevedeva un unico sistema basato sulla presenza di due organi:

a) l’organo amministrativo;

b) il collegio sindacale, che inizialmente svolgeva anche funzioni di controllo contabile.

 La riforma del 2003 ha tuttavia affiancato al sistema tradizionale di amministrazione e di controllo, altri due sistemi alternativi:

A) il sistema dualistico, di ispirazione tedesca. Con tale sistema amministrazione e controllo sono esercitati da un consiglio di sorveglianza, di nomina assembleare, e da un consiglio di gestione, nominato direttamente dal consiglio di sorveglianza.

B) il sistema monistico, di ispirazione anglosassone. Con tale sistema l’amministrazione e il controllo sono esercitate rispettivamente dal consiglio di amministrazione, nominato dall’assemblea, e da un comitato per il controllo sulla gestione costituito al suo interno ed i cui componenti devono essere dotati di particolari requisiti di indipendenza e professionalità.

L’ assemblea

L’assemblea è l’organo composto dalle persone dei soci; la sua funzione è quella di formare la volontà della società nelle materie riservate alla sua competenza dalla legge o dall’atto costitutivo. È un organo collegiale che decide secondo il principio maggioritario. A seconda dell’oggetto delle deliberazioni, l’assemblea si distingue in ordinaria e straordinaria. In seguito alla riforma del 2003, le competenze dell’assemblea ordinaria varia a seconda del sistema di amministrazione di controllo adottato. Nelle società prive del consiglio di sorveglianza, l’assemblea in sede ordinaria:

1) approva il bilancio;

2) nomina e revoca gli amministratori, i sindaci e il presidente del collegio sindacale;

3) determina il compenso degli amministratori e dei sindaci;

4) delibera sulla responsabilità degli amministratori e dei sindaci;

5) delibera sugli altri oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell’assemblea;

6) approva l’eventuale regolamento dei lavori assembleari.

Con l’attuale disciplina sembra invece essere venuta meno la possibilità degli amministratori di sottoporre, di propria iniziativa, all’assemblea operazioni attinenti alla gestione sociale. Più ristrette sono poi le competenze dell’assemblea ordinaria nelle società che optano per il sistema dualistico, dato che in tal caso è il consiglio di sorveglianza che nomina e revoca i componenti del consiglio di gestione, promuove l’azione di responsabilità nei loro confronti e approva il bilancio di esercizio. L’assemblea ordinaria invece:

a) nomina e revoca i consiglieri sorveglianza;

b) determina il compenso ad essi spettante;

c) delibera sulla responsabilità dei consiglieri di sorveglianza;

d) delibera sulla distribuzione degli utili;

e) nomina il revisore.

L’assemblea in sede straordinaria a sua volta delibera:

A) sulle modifiche dello statuto;

B) sulla nomina, sulla sostituzione e sui poteri dei liquidatori;

C) su ogni altra materia espressamente attribuita dalla legge alla sua competenza (art. 2365, 1 comma).

L’assemblea è unica e generale se la società ha emesso solo azioni ordinarie. E quando invece sono state emesse diverse categorie di azioni, o strumenti finanziari, all’assemblea generale si affiancano l’assemblea speciale di categoria.

La convocazione dell’assemblea è di regola decisa dall’organo amministrativo, i cui membri possono disporre la stessa ogni qual volta lo ritengano opportuno. È tuttavia obbligatoria una serie di casi:

A) devono convocare l’assemblea ordinaria almeno una volta all’anno, entro il termine stabilito dallo statuto, e che comunque non può essere superiore a centoventi giorni dalla chiusura dell’esercizio.

B) devono convocare senza ritardo l’assemblea quando ne sia stata fatta richiesta da tanti soci che rappresentano almeno il 10% del capitale sociale o la minor percentuale prevista dallo statuto e nella domanda siano indicati gli argomenti da trattare.

Se gli amministratori oppure in loro vece i sindaci non provvedono, la convocazione dell’assemblea è ordinata con decreto dal tribunale. Tale disciplina ricalca quella del 1998 per le società quotate al fine di rafforzare la posizione degli azionisti di minoranza attivi.

La convocazione dell’assemblea deve poi essere disposta dal collegio sindacale ogni qualvolta sia obbligatoria e gli amministratori non vi abbiano provveduto. L’assemblea è convocata nel comune dove ha sede la società, se lo statuto non dispone diversamente (art. 2363). La convocazione e mediante avviso da pubblicare nella gazzetta ufficiale della repubblica, almeno 15 giorni prima di quello fissato per l’adunanza, può essere sostituita dalla pubblicazione almeno un quotidiano indicato dallo statuto.

Pur in assenza di convocazione, l’assemblea è regolarmente costituita quando è rappresentato l’intero capitale sociale o partecipa la maggioranza dei componenti degli organi amministrativi di controllo. Agli assenti deve tuttavia essere data tempestiva comunicazione delle deliberazioni assunte: questa è la cosiddetta assemblea totalitaria. Essa può deliberare su qualsiasi argomento, ma la sua competenza è instabile e precaria.

Infatti, ciascuno degli intervenuti può opporsi alla discussione degli argomenti sui quali non si ritenga sufficientemente informato, impedendo così che si avvia a deliberare su quel punto. Il presidente è assistito da un segretario designato allo stesso modo. L’assistenza del segretario non è tuttavia necessaria quando il verbale dell’assemblea è redatto da un notaio (art. 2371). Il presidente assicura l’assemblea il voto in modo ordinato nel rispetto delle norme che regolano l’attività.

Le delibere assembleari devono essere accostate da verbale, sottoscritto dal presidente dal segretario o dal notaio. Se si tratta di assemblea straordinaria, il verbale deve essere redatto da un notaio (art. 2375). I verbali devono essere poi trascritti nell’apposito libro delle adunanze delle deliberazione dell’assemblea, tenuta a cura degli amministratori.

Si definisce quorum costitutivo la parte del capitale sociale che deve essere rappresentato in assemblea perché questa sia regolarmente costituita e possa iniziare lavori. Si definisce invece quorum deliberativo la parte del capitale sociale che si deve esprimere a favore di una determinata deliberazione perché questa sia approvata. L’attuale disciplina (art. 2368, 3 comma) stabilisce che nel computo del quorum costitutivo non si tiene conto delle azioni istituzionalmente senza diritto di voto, mentre si tiene conto delle azioni per le quali il voto sia occasionalmente sospeso.

La disciplina del quorum costitutivo e deliberativo è comunque diversa per l’assemblea ordinaria e straordinaria: l’assemblea ordinaria in prima convocazione è regolarmente costituita con la presenza di tanti soci che rappresentino almeno la metà del capitale sociale con diritto di voto. Essa delibera col voto favorevole della metà più uno (maggioranza assoluta) a delle azioni che hanno preso parte alla votazione con determinata delibera. Nessun quorum costitutivo è richiesto per l’assemblea ordinaria di seconda convocazione, che può perciò validamente deliberare qualunque sia la parte del capitale rappresentare in assemblea.

La disciplina delle assemblee straordinarie è diversa a seconda che la società faccia o meno ricorso al mercato del capitale di rischio. Per l’assemblea straordinaria delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio la disciplina previgente è rimasta immutata per quanto riguarda la prima convocazione. Non è infatti espressamente previsto un quorum costitutivo. In prima convocazione l’assemblea straordinaria delibera con voto favorevole di tanti soci che rappresentano più della metà del capitale. Per la seconda convocazione, la riforma del 2003 ha introdotto una differenziazione fra quorum costitutivo e quorum deliberativo.

L’assemblea straordinaria di seconda convocazione è infatti regolarmente costituita con la partecipazione di oltre un terzo del capitale sociale e delibera con il voto favorevole di almeno i due terzi del capitale rappresentato in assemblea (art.2369, 3 comma). Per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, la disciplina dell’assemblea straordinaria invece, è stata più volte modificata a partire dal 1974 e prevede, a partire dal 1998, una differenziazione fra quorum costitutivo e quorum deliberativo, volta a contemperare la facilità deliberativa del gruppo di comando con la tutela delle minoranze.

In base all’attuale disciplina, il quorum costitutivo minimo è almeno la metà del capitale sociale in prima convocazione e più di un terzo in seconda convocazione. Per quanto riguarda i quorum deliberativi invece stabilito che l’assemblea straordinaria delibera sia in prima che in seconda convocazione, con il voto favorevole di almeno i due terzi del capitale rappresentato in assemblea.

Seconda novità è la soppressione a partire dal 1998 di tutte le maggioranze rafforzate in precedenza e richieste per delibere di particolare importanza, con la sola eccezione dell’esclusione del diritto di opzione. Lo statuto può modificare solo in aumento le maggioranze previste per l’assemblea ordinaria di prima convocazione e quelle dell’assemblea straordinaria, nonché stabilire norme speciali per la nomina delle cariche sociali. È consentito che lo statuto preveda convocazioni ulteriori sia dell’assemblea ordinaria che di quella straordinaria; convocazione alle quali si applicano le disposizioni della seconda convocazione.

Possono intervenire in assemblea gli azionisti con diritto di voto (art.2370, 1 comma), nonché i soggetti che pur non essendo soci hanno diritto di voto, come l’usufruttuario o il creditore pignoratizio (art. 2352). In base all’attuale disciplina il diritto di intervento non compete invece agli azionisti senza diritto di voto, eccezion fatta per il socio che ha dato le proprie azioni in pegno o in usufrutto.

È stata anche esemplificata la disciplina dell’intervento in assemblea (art.2370): non è più necessario il preventivo deposito delle azioni presso la sede della società o presso le banche indicate nell’avviso di convocazione, inoltre è venuto meno il divieto di ritiro dei titoli prima che l’assemblea abbia avuto luogo. Preventivo deposito e divieto di ritiro anticipato, possono essere però previsti dallo statuto, che ne fissa anche il termine entro il quale il deposito deve avvenire. Lo statuto può inoltre consentire l’intervento dell’assemblea mediante mezzi di telecomunicazione o l’espressione del voto per corrispondenza. E chi esprime il voto per corrispondenza si considera intervenuto all’assemblea (art.2370, 4 comma).

Gli azionisti possono partecipare all’assemblea sia personalmente sia a mezzo di rappresentante. La partecipazione a mezzo rappresentante è oggi regolata da due diverse discipline: una applicabile a tutte le società per azioni (art. 2372 c.c.); l’altra, introdotto nel 1998, applicabile in alternativa alla prima, solo alle società con azioni quotate. L’istituto della rappresentanza in assemblea, consente la partecipazione indiretta dei piccoli azionisti alla vita della società e all’agevole raggiungimento delle maggioranze assembleari nelle società con diffuso assenteismo dei soci.

E’ però istituto che può prestarsi ad abusi: attraverso il rastrellamento delle deleghe il gruppo minoritario di comando della società e/o gli amministratori possono rafforzare le proprie disposizioni di potere a spese dei piccoli azionisti in occasione di assemblee che si preannunciano particolarmente combattute. Proprio per evitare ciò il legislatore interviene una prima volta nel 1974, scegliendo la via di introdurre una serie di limitazioni volte ad ostacolare la raccolta delle deleghe; la delega deve essere conferita per iscritto e deve contenere il nome del rappresentante che può farsi sostituire solo da altra persona indicata nella delega stessa.

Le società o gli enti possono delegare solo un proprio dipendente o collaboratore. La delega è sempre revocabile. Con la riforma del 2003 è stata invece circoscritta alle sole società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio la regola secondo cui la rappresentanza può essere conferita solo per singole assemblee. Con la riforma del 1998 è stato invece soppresso il divieto di rappresentanza per le banche (introdotto nel 1974).

Con la riforma del 1974 sono state infine introdotte limitazioni, tuttora vigenti, anche per quanto riguarda il numero dei soci: non più di 20, o se si tratta di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio non più di 50, 100 o 200 soci, a seconda che il capitale della società non superi 5 milioni di euro, non superi i 25 milioni o infine superi quest’ultima cifra. La riforma del 1998 ha introdotto per le sole società con azioni quotate gli istituti della ” sollecitazione” e della ” raccolta delle deleghe”: istituti per i quali non operano le limitazioni soggettive e quantitative.

La sollecitazione è la richiesta di conferimento di deleghe di voto rivolta a tutti gli azionisti da parte di uno o più soggetti (committente), che richiedono una lesione a specifiche proposte di voto. Il committente deve già possedere almeno l’1% delle azioni con diritto di voto da almeno sei mesi. Inoltre per effettuare la sollecitazione deve necessariamente rivolgersi ad un intermediario professionale (banche, imprese di investimento), che effettuerà la sollecitazione per suo conto, mediante la fusione di un prospetto e di un modulo di delega.

Diversa dalla sollecitazione è la ” raccolta” di deleghe, che risponde allo scopo di agevolare l’esercizio indiretto del voto da parte di piccoli azionisti già organizzati in associazione per la difesa dei comuni interessi. La raccolta di deleghe è infatti la richiesta di conferimento di deleghe effettuata da associazione di azionisti esclusivamente nei confronti dei propri associati.

Con l’esercizio del diritto di voto il socio concorre alla formazione della volontà sociale in proporzione al numero di azioni possedute, mentre la maggioranza esplica il potere di operare le scelte discrezionali, necessarie o utili per l’attuazione del contratto sociale. L’esercizio di diritto di voto è in via di principio rimesso all’apprezzamento discrezionale del socio, il quale deve però esercitarlo in modo da non arrecare un danno al patrimonio della società.

Le deliberazioni assembleari regolarmente adottate sono annullabili solo se la maggioranza si sia ispirata esclusivamente ad interessi extra sociali, con danno per la società. Versa in un conflitto di interessi l’azionista che in una determinata delibera ha un interesse personale contrastante con l’interesse della società.

Ad esempio, l’assemblea è chiamata a deliberare sull’acquisto di un immobile di proprietà del socio, o sul compenso al socio amministratore, o ancora sulla concessione di fideiussione a favore di altra società composta dagli stessi soci. In base a tale situazione, il socio (art. 2373), è libero di votare o di astenersi, ma se si vota la delibera approvata con il suo voto determinante è impugnabile a norma dell’art. 2377 qualora questa, possa recare danno alla società.

La delibera adottata col voto del socio in conflitto di interessi non è annullabile a patto che ricorrano due condizioni:

a) che il suo voto sia stato determinante (prova di resistenza);

b) che la delibera possa danneggiare la società (danno potenziale).

Due ipotesi tipiche di conflitto di interessi sono previste dall’articolo 2373, 2 comma che:

A) vieta ai soci amministratori di votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità;

B) vieta, nel sistema dualistico ai soci componenti del consiglio di gestione, di votare nelle deliberazioni riguardanti la nomina, la revoca, o la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza. La disciplina del conflitto d’interessi, consente di reprimere gli abusi della maggioranza a danno del patrimonio sociale.

I sindacati di voto sono accordi (patti parasociali) con i quali alcuni soci si impegnano a concordare preventivamente il modo in cui votare in assemblea. I sindacati di voto possono avere carattere occasionale o permanente. In questo secondo caso, possono essere a tempo determinato o a tempo indeterminato, nonché riguardare tutte le delibere assembleari o soltanto quella di determinato tipo.

Si può stabilire che il modo come votare sarà deciso all’unanimità o a maggioranza dei soci sindacati. I vantaggi dei sindacati di voto sono evidenti: essi danno un indirizzo unitario all’azione dei soci sindacati se questi vengono a costituire il gruppo di comando, il patto di sindacato consente di dare stabilità di indirizzo alla condotta della società.

L’accordo di sindacato consente infatti, una migliore difesa dei comuni interessi quando è stipulato fra soci di minoranza. I pericoli dei sindacati di voto sono altrettanto evidenti: i sindacati di comando cristallizzano il gruppo di controllo, soprattutto se stipulati a lungo termine o a tempo determinato e combinati con un sindacato di blocco delle azioni. Con i sindacati di comando il procedimento assembleare finisce con l’essere rispettato solo formalmente, dato che di fatto le decisioni vengono prese prima e fuori dall’assemblea. Se il sindacato decide a maggioranza, anche il principio maggioritario finisce col ricevere ossequio solo formale.

Con questi accordi sul voto, formalmente nulla cambia nel funzionamento dell’assemblea; sostanzialmente invece il procedimento assembleare può essere più o meno gravemente alterato a seconda di come il sindacato è strutturato. Il sindacato di voto, come patto parasociale è produttivo di effetti solo fra le parti e non nei confronti della società. Perciò il voto dell’assemblea resta valido anche se espresso in violazione degli accordi di sindacato.

Altro è il profilo su cui incidono i sindacati di voto (a maggioranza o all’unanimità): è quello dell’esatta individuazione dei reali centri di potere delle società che concorrono a determinare, attraverso la concentrazione, l’indirizzo unitario dei voti. Nelle società non quotate non solo i sindacati di voto, ma anche gli altri patti stipulati al fine di stabilizzare gli assetti proprietari o i governo della società (ad es. sindacali di blocco), non possono avere durata superiore a cinque anni, ma sono rinnovabili alla scadenza.

Inoltre, possono essere stipulati anche a tempo determinato, ma in tal caso ciascun contraente può recedere con un preavviso di sei mesi(art.2341-bis). Per la società non quotate i limiti di durata non si applicano ai patti strumentali e ad accordi di collaborazione della produzione e dello scambio di beni e servizi a quelli relativi a società interamente possedute dai partecipanti all’accordo (art. 2341-bis, 3 comma). I patti parasociali sono inoltre soggetti ad un particolare regime di pubblicità.

Nelle società non quotate che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio i patti parasociali devono essere comunicati alla società e dichiarati in apertura di assemblea. La dichiarazione deve essere trascritta nel verbale di assemblea che deve essere depositato presso l’ufficio del registro delle imprese. L’omessa dichiarazione è sanzionata con la sospensione del diritto di voto delle azioni cui si riferisce il patto parasociale.

Nelle società quotate, invece, i sindacati di voto e gli altri patti parasociali previsti dall’art. 122 Tuf, devono essere comunicati alla Consob, pubblicati per estratto sulla stampa quotidiana e depositati presso il registro delle imprese nel luogo dove la società ha sede legale entro brevi termini fissati per legge. La violazione di tali obblighi comporta la nullità dei patti e la sospensione del diritto di voto relativo alle azioni sindacate. Nessuna forma di pubblicità è invece prevista per i patti parasociali riguardanti società non quotate che non fanno appello al mercato del capitale di rischio.

L’invalidità delle delibere assembleari può essere determinata per la violazione delle norme che regolano il procedimento assembleare o dai vizi che riguardano il contenuto della delibera. Anche per le deliberazioni assembleari opera la distinzione fra nullità e annullabilità proprie della disciplina dei contratti. Il codice del 1942 privilegia la stabilità delle delibere assembleari. La nullità si presentava infatti come sanzione eccezionale prevista solo per le delibere aventi oggetto impossibile o illecito. I vizi di procedimento davano vita sempre e soltanto alla annullabilità della delibera e non ha alla più grave sanzione della nullità. Decorso il termine di tre mesi concesso per l’impugnativa la delibera non era più contestabile per vizi procedimentali anche gravi. Questo però era il diritto descritto dal codice del 1942, ben altro è invece del diritto vivente: non potendosi contestare le cause di nullità prevista dall’art. 2379, si era girato l’ostacolo introducendo accanto alle delibere nulle e annullabili una terza categoria del tutto ignorata dal codice del 1942: quella delle delibere inesistenti. Tali erano considerate le delibere che presentavano vizi di procedimento talmente gravi da precludere la possibilità stessa di qualificare l’atto come delibera assembleare. In tal caso si deve parlare di delibera inesistente per mancanza dei requisiti minimi essenziali di una delibera assembleare e la sanzione non poteva essere che la nullità radicale. Si arrivava così ad estendere la sanzione della nullità anche delibere che presentavano solo vizi di procedimento. La riforma del 2003 introduce una disciplina, il cui obiettivo di fondo è quello di porre fine alla categoria giurisprudenziale delle delibere esistenti riconducendo le categorie della nullità o dell’annullabilità tutti possibili vizi delle delibere assembleari (cosiddetto principio di tassatività delle cause di invalidità). Delibere annullabili (artt.2377-2378): l’attuale disciplina ribadisce il principio che l’annullabilità costituisce la regola per le delibere assembleari invalide. Infatti sono semplicemente annullabili tutte ” le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto ” (art.2377, 2 co), mentre la più grave delle sanzione della nullità scatterà solo nei tre casi tassativamente indicati nell’art. 2379 c.c. Possono dar vita solo ad annullabilità della delibera:

  1. a) a la partecipazione all’assemblea di persone non legittimate, ma solo se tale partecipazione sia stata determinante per la regolare costituzione dell’assemblea (cosiddetta prova di resistenza);
  2. b) l’invalidità dei singoli voti o il loro errato conteggio, ma solo se determinanti per il raggiungimento della maggioranza;
  3. c) l’incompletezza o inesattezza del verbale, ma solo quando impediscono l’accertamento del contenuto, degli effetti, e della validità della delibera (art.2377, 4 comma).

Per le delibere annullabili è dettata poi una disciplina specifica profondamente diversa da quella prevista per le delibere nulle. L’impugnativa può essere infatti proposta solo dei soci espressamente previsti da legge. Legittimato per l’impugnativa è anche il rappresentante comune degli azionisti di risparmio. La legittimazione di impugnativa non compete quindi né i soci che abbiano votato a favore della delibera, né ai terzi qualificati come creditori sociali. L’impugnativa o l’azione di risarcimento danni devono essere proposte entro breve termine e decadenza: 90 giorni dalla data della deliberazione o, se questa è soggetta ad iscrizione nel registro delle imprese, tre mesi dall’iscrizione dal deposito. L’azione di annullamento è proposta davanti al tribunale del luogo dove la società ha la sede. Non è più necessario il deposito nella cancelleria del tribunale di almeno un’azione. Sono inoltre predisposti accorgimenti al fine di evitare che impugnative pretestuose possano danneggiare la società. Il tribunale può disporre in ogni momento che i soci a opponenti prestino idonea garanzia per l’eventuale risarcimento danni. Inoltre, la proposizione dell’azione non sospende di per sé l’esecuzione della delibera. La sospensione può esser tuttavia disposta su richiesta dell’impugnante, previa comparazione della società, e dopo aver sentito amministratori e sindaci. L’annullamento ha effetto per tutti i soci e obbliga gli amministratori a prendere provvedimenti conseguenti sotto la propria responsabilità. Restano però in ogni caso salvi diritti acquistati in buona fede terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della delibera. Infine, l’annullamento non può aver luogo se la delibera è sostituita con altra presa in conformità alla legge o dell’atto costitutivo o è stata revocata dall’assemblea. Restano salvi i diritti acquistati dai terzi sulla base della deliberazione sostituita (art. 2377, 8 comma).

 

I casi di nullità delle delibere assembleari sono cresciuti rispetto la disciplina previgente, al fine di esorcizzare la categoria giurisprudenziale delle delibere inesistenti, quindi con l’obiettivo ultimo di circoscrivere l’ambito di operatività delle sanzioni rispetto al previgente diritto vivente. La delibera è nulla solo nei tre casi tassativamente indicati nell’art. 2379.

Sono nulle le delibere il cui oggetto è impossibile o illecito; vale a dire contrario a norme imperative, all’ordine pubblico al buon costume. Ad esempio, si delibera di non redigere il bilancio di esercizio o di sopprimere il collegio sindacale. Nullità si ha tuttavia anche quando la delibera ha oggetto lecito ma contenuto illecito. L’attuale disciplina precisa che la delibera assembleare è altresì nulla nei casi di:

  1. a) mancata convocazione dell’assemblea. Si precisa però che:

1) la convocazione non si considera mancante e non si ha nullità della delibera “nel caso di irregolarità dell’avviso, se questo proviene da un componente dell’organo amministrativo o di controllo della società ed è idoneo a consentire a coloro che hanno diritto di intervenire di essere tempestivamente avvertiti della convocazione e della data dell’assemblea” (art. 2379, 3 comma).

2) l’azione di nullità non può essere esercitata da chi, anche successivamente, abbia dichiarato il suo assenso allo svolgimento dell’assemblea (art.2379-bis, 1 comma).

  1. b) mancanza del verbale. Si precisa che:

1) il verbale non si considera mancante “se contiene la data della deliberazione e il suo oggetto è sottoscritto dal presidente dell’assemblea o dal presidente del consiglio d’amministrazione o del consiglio di sorveglianza e dal segretario o dal notaio” (art. 2379, 3 comma);

2) la nullità per mancanza del verbale è sanata con effetto retroattivo mediante verbalizzazione eseguita prima dell’assemblea successiva. Resta fermo il principio della nullità delle delibere assembleari che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice. A differenza dell’azione di nullità di diritto comune, non soggetta a prescrizione o a termini di decadenza, possono invece essere impugnate senza limiti di tempo solo le delibere che modificano l’oggetto sindacale prevedendo attività illecite o impossibili. In tutti gli altri casi è introdotto un termine di decadenza di tre anni. Specificamente disciplinata è poi l’invalidità delle delibere di approvazione del bilancio, non più impugnabile dopo l’approvazione del bilancio successivo e della delibera di trasformazione.

 

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