Il codice civile detta una serie di norme sull’interpretazione del contratto (artt. 1362 -1371).

Queste norme sono distinte in gruppi, perché sono ordinate in senso gerarchico.

L’interprete, pertanto, non può utilizzare a suo piacere questa o quella regola interpretativa, ma deve utilizzarle in senso gerarchico, cioè deve prima utilizzare le regole facenti parte del gruppo d’interpretazione soggettiva (il cui scopo è quello di cogliere la volontĂ  in concreto, la comune intenzione delle parti); solo se l’utilizzazione di queste regole non abbia portato ad un appagante risultato, quindi sussista ancora il dubbio, l’interprete può e deve passare all’utilizzazione delle regole d’interpretazione oggettiva (chiamate così perchĂ© è la legge stessa che oggettivamente da un significato alla dichiarazione); se poi anche con queste regole non si ha nessun risultato, si ricorre alle cosiddette regole finali interpretative, che cercano comunque di dare una soluzione al problema interpretativo. Infine, se l’oscuritĂ  permane, non resta che ritenere il negozio invalido.

 Interpretazione soggettiva

L’interpretazione soggettiva è quella che tende ad accertare la comune intenzione delle parti.  I criteri di interpretazione soggettiva sono rivolti ad accertare in via diretta e immediata il senso e la portata dell’accordo e quindi l’intenzione delle parti  sulla base delle loro dichiarazioni e dei loro comportamenti.

In via di apertura viene enunciato il principio basilare secondo il quale: nell’interpretare il contratto si deve, anzitutto, indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole.

I criteri di interpretazione soggettiva prevalgono su quegli di interpretazione oggettiva tanto che qualora, a seguito della loro applicazione, non risultino spazi di dubbio nella determinazione della volontĂ  delle parti non si dovranno applicare le regole dettate per la cosiddetta Interpretazione oggettiva (di cui all’artt. 1367, 1368 e 1370).

Se questo criterio “gerarchico” è univoco sia in dottrina sia in giurisprudenza diversa è la situazione in ordine all’esistenza di un distinto criterio gerarchico tra le diverse regole di interpretazione soggettiva.

Infatti:

a)     alcuni autori e parte della giurisprudenza ritengono che i criteri di interpretazione soggettiva siano tutti paritariamente concorrenti e trovino sempre a applicazione congiunta, con la conseguenza che l’interprete non dovrĂ  limitarsi a considerare il senso letterale delle parole usate dalle parti-anche qualora questo non lasci adito a spazi di dubbio -ma dovrĂ  sempre fare applicazione degli altri criteri di interpretazione fondati sulla volontĂ  delle parti.

b)    Altri autori, coadiuvati dalla giurisprudenza maggioritaria, ritengono invece, che all’interno dei canoni di interpretazione soggettiva quello letterale abbia un valore prevalente ed assorbente rispetto agli altri, tanto da affermare che qualora il testo contrattuale sia talmente chiaro da non lasciare spazi a dubbi, non sia consentito il ricorso agli altri canoni di interpretazione soggettiva ( in claris non fit interpretatio).

Escludendo questa difformitĂ  di vedute entrambi i filoni dottrinario – giurisprudenziale sono ormai concordi nel ritenere che per  “comune volontĂ  delle parti” si deve intendere solo quella obiettivizzatasi nel testo dell’accordo.

Pertanto risultano superate:

c)     sia la teoria psicologica per la quale oggetto di interpretazione è la reale volontà di ciascuna delle parti;

d)    sia la teoria oggettiva, diametralmente opposta alla precedente, per la quale elemento cardine dell’attivitĂ  interpretativa è il testo contrattuale, a prescindere dalla volontĂ  espressa dalle parti e sottesa alla sua stesura.

Il superamento della teoria psicologica comporta, in particolare, che l’accordo  debba essere valutato in base sì alla reale intenzione delle parti, ma avendo sempre in considerazione il modo in cui questa si è trasfusa nel testo contrattuale, le cui espressioni devono essere intese nel significato “normale” in relazione all’ambiente socio-economico in cui si è formato l’accordo.

Da ciò deriva che, in alcuni casi, la reale volontĂ  della parte possa non corrispondere al significato proprio discendente dal testo dell’accordo, eventualmente emendato o “corretto” dall’applicazione delle regole legali di interpretazione.

E’ questo soprattutto il caso dell’errore ostativo. In una simile ipotesi, proprio in applicazione della regola appena menzionata, è da ritenere che la parte in errore non possa, non ricorrendo i presupposti di legge, fare valere la propria anomala interpretazione se contrastante con il significato “normale ” dell’accordo raggiunto.

Il significato al quale occorre fare riferimento, pertanto, è quello normale con la considerazione, però, che in relazione al particolare tipo ed luogo di conclusione del negozio potrebbe essere necessario considerare un particolare significato tecnico, convenzionale o dialettale dei termini impiegati.

Questi canoni di interpretazione tutelano i terzi, ai quali non è opponibile dalle parti un significato occulto o misterioso opposto a quello parente e risultante dalla lettura secondo buona fede del testo del negozio. Pensiamo a tal proposito alla previsione di cui all’art. 1415 (I Comma cod. civ.) dettato in materia di inopponibilitĂ  dell’accordo simulatorio  ai terzi di buona fede in base al quale le parti non possono opporre un significato del contratto diverso da quello normale.

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