Il 123.1 b) Cod. cons., nel delimitare l’area del “Danno risarcibile”, conformemente alla dir. CEE 374/1985 precisa che in esso rientra quello derivante dalla distruzione o dal deterioramento di una cosa diversa dal prodotto difettoso, purché di tipo normalmente destinato all’uso o consumo privato e così principalmente utilizzata dal danneggiato.

Con quest’ultima connotazione relativa alla destinazione ed all’uso concreto della cosa il risarcimento viene limitato ai beni che il danneggiato, acquirente o no del prodotto, abbia come consumatore, cioè come colui che abbia acquistata la cosa deteriorata o distrutta per destinarla all’uso o consumo privato.

Ciò va sottolineato perché la dir. CEE 374/1985 non è riferita testualmente alla tutela del consumatore e non contiene, diversamente da altre direttive, la definizione di consumatore come del soggetto destinatario della tutela portata di volta in volta dalla direttiva stessa (vedi ad es. il 1469 bis comma II).

Con la limitazione del risarcimento alle cose altre del consumatore, il Cod. cons. si colloca nel filone tradizionale della responsabilità del produttore, che nasce come fattispecie moderna della responsabilità civile in ordine ai danni che il prodotto avesse cagionato alla persona od agli altri beni del consumatore.

Il danno puramente patrimoniale consistente nella perdita o nel deterioramento del prodotto stesso deve continuare ad avere disciplina all’interno del contratto di vendita, e dunque nei rapporti tra venditore (ormai quasi sempre non produttore) e compratore, non tra produttore e consumatore.

Il significato del 123.1 b) Cod. cons. in negativo è che il danno conseguente al deterioramento o alla distruzione del prodotto medesimo rimane escluso dal risarcimento a carico del produttore.

{Questa soluzione è stata ritenuta inappagante da Fabrizio Cafaggi.

L’ipotesi che si possa dare una responsabilità aquiliana del produttore per danni positivamente esclusi dal Codice del consumo appare immediatamente poco persuasiva: anche a voler ritenere che, nonostante la puntuale delimitazione del 123, si possa far valere sul punto la sopravvivenza di una tutela in base all’ordinamento interno, in ossequio alla previsione del 127.1, la natura di danno meramente patrimoniale che caratterizza il deterioramento o l’autodistruzione della cosa ne rende improbabile il risarcimento in base alla tutela aquiliana generale}.

La questione è stata molto dibattuta in Germania, dove ci si chiede se un componente difettoso del prodotto, che diventi fonte di deterioramento o di autodistruzione dell’intero, dia corpo a quella lesione della proprietà che il § 823 BGB esige in generale ai fini della responsabilità extracontrattuale.

Il BGH aveva dato risposta positiva alla questione, al fine di superare l’assenza di tutela che sarebbe derivata al consumatore dall’applicazione rigorosa delle norme sui danni derivati dai vizi della cosa.

Sempre secondo il BGH, in base alla disciplina della vendita sarebbero risarcibili solo i danni riguardanti i beni altri del patrimonio del compratore, non la stessa cosa viziata danneggiata in seguito al vizio.

Da allora la giurisprudenza tedesca distingue tra danno puramente economico, che nell’ipotesi di specie è costituito dalla perdita inerente all’affare e consistente nel minor valore della cosa a causa del vizio, danno al quale si applica la disciplina contrattuale, e danni derivati dai vizi della cosa.

{Analogo è l’orientamento negli Stati Uniti, ove il caso del prodotto che si autodistrugge a causa del vizio dà vita ad un’azione in contract, mentre la questione del danno che la cosa viziata ha cagionato ad altri beni del consumatore va risolta in tort}.

Questi ultimi, ove riguardino beni altri del compratore, vedranno l’applicazione della disciplina del contratto sotto le specie delle positiven Vertragsverletzungen {si tratta di una tesi che ascende fino ad Hermann Staub}; nel caso invece che riguardino la cosa stessa autodeterioratasi od autodistruttasi per il vizio annidato nel componente, troveranno ristoro mediante la responsabilità extracontrattuale.

Non mi pare che si debba indulgere ad una costruzione così complicata.

Del resto Christian von Bar ha constatato come negli altri ordinamenti la via seguita per ristorare il danno consistente nel deterioramento o nella distruzione della cosa stessa sia piuttosto quella del contratto.

{In questo caso Christian von Bar suggerisce la via del non-cumul, cioè della responsabilità contrattuale che esclude la responsabilità aquiliana perseguita dalla giurisprudenza francese}.

Quanto all’ordinamento italiano, il 1494 (Risarcimento del danno) risolve completamente il problema al comma I (In ogni caso il venditore è tenuto verso il compratore al risarcimento del danno, se non prova di avere ignorato senza colpa i vizi della cosa).

Anche quando sia isolabile un componente all’interno di una cosa composta quale spesso è il prodotto, l’assunzione di essa come intero non consente di pensare al vizio del componente che danneggia il prodotto come se si trattasse del vizio di un bene dal quale derivi danno ad un altro bene del compratore.

Se è la cosa nel suo essere tutt’uno che si deteriora o si autodistrugge, il danno è sì derivato dai vizi della cosa (componente) ma si ripercuote sulla stessa cosa (composta) onde non si può parlare di danno derivato dai vizi della cosa nel senso in cui lo disciplina il 1494.2 (Il venditore deve altresì risarcire al compratore i danni derivati dai vizi della cosa), che deve intendersi riferito ai beni altri del compratore.

Sul punto il diritto romano è ambiguo, perché accomuna nel danno risarcibile sia quello che la cosa componente cagiona alla cosa composta sia il danno che dalla cosa viziata deriva ad altri beni del compratore.

{D. 19.1.13 pr.: […] se dunque cadde la casa per difetto della trave, dovrà pagare il valore della casa; se perirono le pecore per lo contagio portato dalla pecora infetta, dovrà pagargli l’interesse che aveva che gli fosse stata venduta sana: due sono le ipotesi, ma il risarcimento previsto per l’una e per l’altra presuppone, sempre secondo il passo citato, che il venditore abbia taciuto i vizi della cosa}.

Oggi invece si può dire che vi sia concordia in Europa, perché così come in Germania, anche nella tradizione francese i danni derivati dai vizi sono quelli che la cosa viziata ha cagionato all’acquirente nei suoi altri beni (Robert Joseph Pothier, Traité du contrat de vente).

Nel caso della cosa che per lo stesso suo vizio si deteriora e perisce, si tratta invece semplicemente della perdita di valore del prodotto come insieme, nonché del mancato uso e delle spese che tale situazione ha provocato al compratore, e perciò del pregiudizio commerciale, il quale trova disciplina nel 1494.1.

Di questo danno dovrà rispondere il venditore finale nei confronti del consumatore.

E di esso pure dovrebbe poter ottenere ristoro in sede di regresso, in base al 131 Cod. cons. (Diritto di regresso), ma solo dal suo dante causa.

Ciò perché il risarcimento del danno sta fuori dall’àmbito di applicazione della normativa specifica relativa ai beni di consumo e continua a trovare disciplina esclusiva nella parte generale della vendita.

In particolare, poiché tra i diritti del consumatore il 130 Cod. cons. non contempla il risarcimento del danno, questo esula dal diritto di regresso del venditore finale, il quale perciò, in base al principio di relatività, potrà aggredire esclusivamente il suo dante causa.

 

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