Conseguenze derivanti dalla deroga agli artt. 1939 e 1945

Il dibattito sui contratti autonomi di garanzia ha dato vita ad una divergenza di opinioni in ordine alle conseguenze derivanti dalla deroga agli artt. 1939 e 1945 cod. civ. Corret­tamente, la dottrina si è domandata se ,in presenza di tali clausole sia ancora configurabile una garanzia di tipo satisfat­torio. L’art. 1936 cod. civ. disciplina una fattispecie che, intimamente collegata all’ obbligazione principale, non sop­porta previsioni negoziali che rendano autonoma l’obbliga­zione del garante. Anche per tale via, si ripropone, pertanto, il problema dell’ ammissibilità nell’ ordinamento vigente del contratto autonomo di garanzia, non riconducibile alla fatti­specie fideiussoria. La Cassazione, pur riconoscendola, non ha attribuito a tale figura l’autonomia e la funzione indenni­taria (o risarcitoria) che la prassi tende ad accordarle. La Su­prema Corte, infatti, ha escluso che la garanzia provvista della clausola a prima richiesta e senza eccezioni consenta, sempre e comunque, di trasferire il rischio dell’ operazione in testa al garante ed ha specificato che l’autonomia va intesa in senso relativo.

La Corte, infatti, ha affermato che «in sostanza, se pure, contrariamente ai principi che disciplinano la fideius­sione, è da ritenere valido il contratto che consente al creditore di esigere dal fideiussore il pagamento immediato, senza che in quella fase possano essere opposte le eccezioni sollevabili dal debitore garantito, tuttavia […] tutto ciò si risolve in un’in­versione dell’ onere della prova perché, una volta effettuato il pagamento ingiusto, […] la situazione giuridica tra le parti potrà essere riequilibrata e ristabilita con il sistema delle ri­valse». In tal modo però non si ha piu una garanzia inden­nitaria, caratterizzata dall’intento di trasferire su altri il rischio economico dell’ operazione perché, sempre e comunque, l’ ope­ratività della garanzia risulterà condizionata dalla validità e dall’ efficacia dell’ obbligazione garantita.

Tutte le figure, co­munque, sebbene tutelino un interesse patrimoniale del cre­ditore, non presentano le caratteristiche proprie della garanzia del credito in senso stretto. Infatti, le lettere di mera comu­nicazione non pongono a carico della società controllante alcuna responsabilità in ordine al debito della controllata, dan­do luogo soltanto alla responsabilità extracontrattuale del patronnant che avesse fornito una dichiarazione inesatta sul­l’entità della partecipazione: al fine che interessa in questa sede, la soluzione sarebbe analoga anche considerando la re­sponsabilità del patronnant di natura contrattuale perché, pure in questo caso, la banca avrebbe diritto ad ottenere il risarci­mento del danno e non la prestazione dovuta dal debitore.

Anche le lettere con impegno della vigilanza e del controllo sono prive della causa cavendi perché con esse la control­lante si impegna ad un lacere, cioè ad esercitare la propria influenza affinché il debito venga regolarmente adempiuto dalla controllata: la società madre sarà quindi responsabile, e perciò tenuta al risarcimento dei danni, in tutti i casi in cui l’inadempimento sia attribuibile ad una scelta degli ammini­stratori. La natura della responsabilità, pertanto, rende la lettera, anche in questo caso, inidonea ad assolvere la tipica funzione di garanzia. Ad analoga soluzione si deve perveni­re per la lettera con l’assicurazione del pagamento o della solvibilità. della controllata, perché la società madre, assicu­rando che il debitore farà «comunque» fronte agli impegni assunti, non contrae nei confronti del creditore un’obbliga­zione a garanzia di un debito altrui. In questo caso, invece, il negozio costituisce una promessa del fatto del terzo, avente natura indennitaria o risarcitoria, incapace di realiz­zare la funzione satisfattoria propria dei negozi di garanzia In senso stretto.

Critiche alle tesi sopra esposte

Tuttavia, le soluzioni prospettate non fornivano una risposta soddisfacente.

In proposito, si può osservare che la previsione di un massimo ammontare non escludeva la possibilità di abusi perché per rispettare, formalmente, la clausola era sufficiente indicare una somma non proporzionata alla reale capacità eco­nomica del debitore principale, ma di fatto, adeguata a quella del garante. Restava, pertanto, da accertare che la predisposi­zione del limite non si fosse risolta in un comodo espediente per consentire all’istituto di credito di concedere finanziamenti che, per l’elevato ammontare, non sarebbero stati mai richie­sti né, peggio ancora, mai concessi. Il problema solo apparen­temente è stato superato dall’art. 10, comma 1, L. 17 febbraio 1992, n. 154.

Neppure il diritto ad essere informato sulla condizione finanziaria dell’ affidato tutela adeguatamente il garante, perché questi conoscerebbe la consistenza del proprio debito soltanto dopo che l’obbligato principale abbia beneficiato del finanziamento. Analogamente, non può essere considerata del tutto soddisfacente l’utilizzazione della presupposizione che, pur consentendo in astratto l’individuazione dell’ ammontare della garanzia, di fatto rende necessario un controllo sulle scel­te dell’imprenditore difficilmente attuabile; tale soluzione, inol­tre, sembra eccessivamente circoscritta, laddove ritiene utilizza­bile la fideiussione omnibus soltanto nell’àmbito dei contratti di finanziamento all’impresa.

Conseguentemente, se la fideiussione omnibus, caratterizzata anche da uno scopo di finanziamento, fosse considerata una fattispecie autonoma rispetto a quella di cui all’ art. 1936 cod. civ., si potrebbe anche ritenere che l’art. 1956 cod. civ., non piu derogabile nell’ambito della fideiussione codicistica, rimanga disponibile in una fattispecie che realizzi una diversa funzione.

Nell’ipotesi che interessa, pertanto, si ripresenterebbe il problema dell’ applicabilità ai contratti atipici di un articolo previsto per una figura tipica, analogamente a quanto avvie­ne, ad esempio, per l’art. 1526 cod. civ. Tale norma, dettata, per la vendita con riserva di proprietà, infatti, secondo alcuni non sarebbe utilizzabile per disciplinare il leasing proprio a causa della sua atipicità. Qualora il discorso fosse riproposto anche per la garanzia con funzione di finanziamento, la scelta del legislatore potrebbe essere messa in discussione proprio per quelle ipotesi che, molto probabilmente, ne hanno ispira­to l’intervento: risulterebbe cosi incerta la disciplina di quelle figure che, per la diffusione ottenuta e per la rilevanza degli interessi coinvolti, dovrebbero essere sicuri mezzi per agevo­lare l’accesso al credito. Né si dica, per superare il problema, che la deroga all’art. 1956 cod. civ. sarebbe comunque nulla perché contraria all’ ordine pubblico (economico ). Se cosi fosse, si dovrebbe concludere per l’inutilità dell’intervento del legislatore che ne ha previsto l’espressa inderogabilità con una norma innovativa della precedente disciplina codicistica.

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