Oggi prevale lo stereotipo secondo cui vengono a mancare non solo le opportunità oggettive di lavoro, ma anche l’idea stessa del lavoro. Molti fra gli stessi studiosi parlano di «fine del lavoro» e di «fine della società del lavoro». I giovani sarebbero la testimonianza più evidente di questa situazione di dissolvimento del lavoro. MA occorre domandarsi se questa sia veramente la situazione, o se piuttosto non ci sia una sorta di annebbiamento della coscienza personale e collettiva, che distorce il senso del lavoro, lo scenario delle opportunità di lavoro e quindi anche i requisiti formativi per realizzare tali opportunità. Occorre rivedere il modo di intendere il lavoro oggi e, di conseguenza, il senso dell’educare al lavoro. L’educazione al lavoro rappresenta una nuova istanza antropologica che, nell’era della globalizzazione, può essere soddisfatta solo ricorrendo ad un nuovo paradigma pedagogico e capace di socializzare.

In larga maggioranza i giovani si rapportano con il lavoro in modo estetico: faccio questo perché mi piace. E vanno in crisi se non trovano subito sul mercato ciò che gli garantisce un’immediata soddisfazione.

Questo accade perché i giovani vengono educati a pensare di vivere in una società del rischio dell’incertezza, in cui prepararsi al lavoro ed darsi da fare non serve a niente. Ai giovani si insegna solo che la relazione di lavoro alle caratteristiche del mercato: bisogna saperla vendere al miglior prezzo. Quindi gli individui si abituano ad agire solo in quanto aspirano a massimizzare la loro utilità, ossia il reddito. Ma ciò è completamente sbagliato perché i giovani non sono liberi di scegliersi una professione, perché sulla scelta influirà comunque il clima culturale e sociale in cui egli stesso vive.

In questo contesto, internet, la tv, la musica sradicano i ragazzi dalla realtà e li trasportano in un mondo virtuale dove tutto, anche il lavoro, è finto. Il dramma è che non se ne accorgono. La sfida per l’educazione è far di nuovo “assaggiare” ai giovani la realtà “scippandoli” al mondo dell’immaginario. Occorre cancellare il mito da paese dei balocchi che molti media propongono, spiegare che il lavoro, qualunque esso sia, è un’attività che richiede sacrificio, ordine, capacità di programmazione, acquisizione di competenze.

Perché il problema? Le cause oggettive e soggettive

Se il problema dell’educazione al lavoro è come configurare la relazione sociale tra il giovane e il mercato del lavoro, è evidente la necessità di migliorare la qualità umana e professionale del giovane esce dalla scuola e dall’Università. Gli orientamenti e le aspettative dei giovani si trasformano in almeno tre direzioni: crescono le preferenze per il lavoro autonomo; crescono le aspettative per un lavoro più creativo; crescono le preferenze per un rapporto vita-lavoro più equilibrato nei tempi. Il lavoro non fare più il suo valore dal criterio delle ore in cui si esercita, ma dalla qualità umana che incorpora: il lavoro diventa protagonista non di una società salariata ma di una società di produttori e consumatori dotati di più elevate esigenze soggettive. Ma fino a che punto si può parlare di personalizzazione del lavoro? Le pratiche educative dovrebbero alimentare la riflessività dei giovani nel considerare se stessi in relazione al proprio contesto sociale e viceversa: va posta l’attenzione su quei metodi educativi che puntano a sviluppare sia l’autonomia e la capacità di cooperazione con gli altri. Eeducare ad un lavoro personalizzato significa oggi aiutare il giovane a chiarire in motivi e gli scopi del suo progetto professionale e della formazione che richiede.

Proposte operative

Il significato della proposta educativa è quello di ravvivare nelle giovani generazioni il senso del lavoro come vocazione professionale. Un’apparente contraddizione con la fine della società del lavoro profetizzata da qualche studioso. I lavori tradizionali della società industriale, infatti, vanno diminuendo. Stiamo parlando del lavoro dell’operaio, dell’impiegato che devono eseguire dei compiti già stabiliti. Il futuro è su un altro pianeta che, almeno in Italia, è inesplorato. C’è un campo sterminato di creatività da parte del lavoratore che può costruirsi un profilo professionale secondo le proprie attitudini nel campo dei servizi e del terzo settore. Pensiamo ai servizi alla persona. dove occorre letteralmente inventare il lavoro. La novità è un modo di vivere il lavoro come relazione sociale. Un modo in cui il rapporto con il destinatario dei servizi ha un forte contenuto relazionale: non è sostituibile dalle macchine, non è automatizzabile.

Si tratta di un’attività che si può fare solo con forti motivazioni, ma la strada maestra è quella di umanizzare il lavoro. Anche se oggi prevale il lavoro solo materiale, con un nesso esclusivamente monetario, l’umanizzazione del lavoro non dev’essere un’utopia e deve attuarsi con la partecipazione di tutte le istituzioni. Anche i sindacati devono porre il problema della qualità umana del lavoro non attraverso una rivendicazione ma attraverso una proposta. Gli imprenditori dovrebbero capire che l’umanizzazione del lavoro rende più competitiva la loro attività: questo significa agire sul clima aziendale, riequilibrare i tempi del lavoro. Non sono solo buone intenzioni, ma una garanzia di successo.

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