Nel periodo tardo repubblicano, i giuristi non ricorrono esplicitamente allo schema dell’aequitas per introdurre nello ius civile delle soluzioni “di rottura” , incompatibili con il testo delle norme o regole consolidate: utilizzando la tecnica dell’analisi casistica e il “distinguo” proponendo quindi soluzioni nuove comunque riconducibili però ad un’”interpretatio” compatibile col tenore residuale delle norme di riferimento. La contrapposizione “diritto scritto-aequitas” sembra che si possa ricondurre in quest’epoca ad un topos dell’argomentazione retorica o alla rappresentazione letteraria-filosofica dell’eterno conflitto tra rigidità formalistica del diritto e esigenza di giustizia sostanziale proveniente dalla variegata realtà concreta.

Nella celebre “Causa curiana” tramandata da Cicerone, si confrontarono un giurista e un retore: le argomentazioni dei 2 “avvocati” appaiono puramente di parte e sono orientate alla necessità del dibattito processuale più che da prese di posizione su problemi generali dell’interpretazione negoziale. Prevale la tesi di Crasso (che propugnava una certa interpretazione della voluntas del testatore vs l’applicazione della formulazione letterale della clausola di sostituzione pupillare): questo perché probabilmente il miglior uso della retorica forense, portò il tribunale ad una scelta di “politica del diritto” da parte del giudice, che favorì l’aequitas piuttosto che lo ius strictum. Stroux in un opera del 1926 afferma che con questa “causa curian” ci fu il superamento definitivo dello ius strictum (che avrebbe comportato l’interpretazione strettamente letterale dei verba della disposizione testamentaria)in favore dell’aequitas (che permise il prevalere dell’interpretazione secondo la voluntas del testatore).

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