Né i pontifices né la prima giurisprudenza repubblicana hanno elaborato una classificazione delle fonti del diritto. A partire dalla codificazione decemvirale, la lex rogata rappresentava l’unico mezzo possibile di porre in essere espressamente norme giuridiche:successivamente, la legge rimase l’unico mezzo di produrre norme sul piano dello ius civile, sino a quando una tale efficacia non venne riconosciuta ai senatoconsulta o alle costituzioni imperiali.

Dal punto di vista delle fonti, il problema è rappresentato in primo luogo dal rapporto fra la lex e i mores; mores che si contrappongono alla lex in quanto non hanno meramente un carattere vincolante.

Il problema del rapporto fra ius e mores si pone essenzialmente in ambito privatistico. Secondo un’opinione particolarmente diffusa, il ius civile assumerebbe un significato particolare in quanto contrapposto alla lex: esso indicherebbe il ius fondato su quei mores che non erano sttai codificati nelle XII tavole. Tale ius non si fondava su di una statuizione normativa espressa e così inteso, lo ius civile risultava essere intangibile, non modificabile con una lex.

Quest’ultima ipotesi, tuttavia, sembrerebbe non reggere sino in fondo: esistono, infatti, forme di abrogazione legislativa di norme e d’istituti che trovano la loro origine nei mores. L’intervento legislativo si manifesta, solitamente, in punti particolari, a correzione di disfunzioni marginali del sistema civilistico o sotto la spinta di particolari esigenze di carattere politico.

A questo proposito, risulta essere interessante proporre la tripartizione delle leges rogatae in:

– Leges perfectae, le quali vietano un atto , ne dispongono la nullità e ne eliminano gli effetti.

– Leges minus quam perfectae, che vietano un atto ma non ne dispongono la nullità: tuttavia, a colui che ha violato il divieto legislativo viene impartita una pena pecuniaria.

– Leges imperfectae che vietano l’atto, non ne dispongono la nullità e non impartiscono alcun tipo di sanzione a chi viola la legge.

La prova della tendenza a non incidere sul ius civile, mediante interventi di tipo legislativo, si ha sicuramente nella maggior frequenza , nel periodo medio – repubblicano, delle leggi minus quam imperfectae e di quelle imperfectae.

Inoltre, va sottolineato come i principi manifestati attraverso i mores trovavano una rispondenza nella loro natura. Ciò significa che essi mutavano in base alle situazioni socio-economiche e che un intervento del legislatore sarebbe stato inopportuno, per il semplice fatto che le regole di condotta si desumevano dalla natura dei rapporti umani. Tutto questo sembra giustificare l’estrema libertà che i pontifices e i giuristi laici possedevano nell’interpretatio iuris, che rappresenta la visione complessiva dell’ordinamento e dei suoi presupposti economici-sociali.

Essi, infatti, avevano a che fare con un sistema aperto, aspetto questo che caratterizzerà l’ordinamento romano sino all’età classica. Appartenendo all’aristocrazia patrizia e poi alla nobilitas patrizio-plebea, i pontefici e i giuristi laici riassumevano i valori delle oligarchie cui appartenevano; oligarchie conservatrici anche nel costume.

Inoltre, essendo degli incaricati a risolvere i conflitti all’interno delle loro stesse classi d’appartenenza, i giuristi finirono per trascurare del tutto quelle attività economiche e sociali che non risultavano essere legate alle loro strutture di provenienza. Parliamo così dei traffici interni e di quelli internazionali, restando i giudici addirittura alieni dal diritto onorario, in cui questi traffici trovavano una loro concreta disciplina.

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