Il diritto processuale civile oggi vigente in Italia è nella sua maggior parte raccolto nel Codice di procedura civile del 1940, entrato in vigore nel 1942.

Il processo regolato dal codice del 1865 era un processo scritto; i componenti del collegio giudicante non avevano alcuna conoscenza diretta dell’andamento del processo e della sua istruzione ed al momento della decisione dovevano formare il loro giudizio sulla lettura dei verbali e delle difese scritte. Inoltre ogni questione controversa, anche se riguardante il procedimento e l’ammissione di prove, doveva essere decisa dal collegio con sentenza soggetta ad appello e perciò spesso mentre si svolgeva in seconda istanza il procedimento di impugnazione contro la sentenza interlocutoria in primo grado proseguiva il procedimento principale, la cui validità era però condizionata alla conferma della sentenza appellata.

Questi ed altri difetti furono acutamente denunciati soprattutto dal Chiovenda, il quale sostenne che la riforma dovesse riguardare la struttura del procedimento, per informarlo al principio dell’oralità, in cui egli riassumeva anche gli altri princìpi connessi dell’immediatezza, della concentrazione e della non appellabilità delle decisioni interlocutorie. Questi aspetti tecnici della riforma esigevano poi, per la loro piena attuazione, che il giudice uscisse dalla sua posizione puramente passiva e potesse intervenire più attivamente nella direzione del procedimento e nella formazione del materiale di cognizione.

Queste idee finirono per convincere la maggior parte dei competenti e dell’opinione pubblica. Sembrò tuttavia che tenere impegnato l’intero collegio in tutte le udienze preparatorie ed istruttorie importasse un eccessivo dispendio di attività e richiedesse una disponibilità di personale molto superiore a quello esistente. Si spiega così la proposta (Progetto preliminare Solmi, 1937) di sostituire il collegio con un giudice unico nel giudizio di primo grado dei Tribunali. Ma la proposta incontrò vivaci critiche, poiché contrastava con una tradizione ormai antica. Si pervenne così alla soluzione di compromesso, consistente nell’affidare ad un giudice unico la preparazione ed istruzione della causa, ed al collegio la decisione.

Purtroppo mancò totalmente la preparazione tecnico-amministrativa che avrebbe dovuto accompagnare la riforma della legge. Erano insufficienti sia gli uffici giudiziari e la loro attrezzatura, che il numero dei magistrati.

Mentre non si provvide dagli organi competenti a migliorare e rafforzare l’ordinamento giudiziario, si è creduto invece indispensabile riformare il codice.

Numerose ed importanti disposizioni di indole processuale sono fuori del codice, anzitutto quelle che si trovano raccolte nel Libro VI (Della tutela dei diritti) del Codice civile sulla tutela dei diritti (Titolo II [Delle prove], III [Della responsabilità patrimoniale, delle cause di prelazione e della conservazione della garanzia patrimoniale] e IV [Della tutela giurisdizionale dei diritti]), che improvvidamente furono tolte dalla loro sede naturale e contengono molte disposizioni fondamentali del processo. Altre regole processuali si trovano nel Codice della navigazione. Inoltre il r.d. 267/1942, contenente la disciplina del fallimento, è sostanzialmente una legge processuale.

Sull’ordinamento giudiziario provvede il r.d. 12/1941, successivamente ritoccato in varie parti.

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