Nella seconda metà dell’ottocento una maggiore attenzione all’autore del reato viene data dalla scuola positiva italiana (Lombroso) che elaborò una concezione di personalità conoscibile scientificamente e manipolabile. Il delinquente è un soggetto contraddistinto da caratteri speciali il cui comportamento viene considerato come una devianza rispetto alla normalità dovuta a una componente patologica del carattere individuale: la criminalità che è dovuta a fattori fisici-psichici-sociali-antropologici.

Lo scopo della pena è quello di neutralizzare la pericolosità del criminale. Ma questa teoria (che portò a tristi risultati) portata alle estreme conseguenze rende gli uomini cavie da laboratorio, e considera i delinquenti non come responsabili, ma come vittime della loro eredità genetica, dell’educazione e dell’ambiente.

È su questa scia che poi si svilupperà la moderna criminologia con le sue teorie sulla predisposizione genetica alla delinquenza, all’incapacità di inserimento conseguente a una educazione carente da bambini, e a tutte quelle teorie ambientali che valorizzano le condizioni sociali ed economiche, quali il sovrapopolamento, la subcultura del ghetto, ecc.

Tale orientamento viene superato nel secondo dopo guerra con il movimento della nuova difesa sociale, orientato al reinserimento del delinquente nella società e con particolare riguardo al momento della esecuzione della pena (con l’introduzione di istituti che prevedono l’esenzione dalla pena, la sospensione dell’esecuzione, la sostituzione della pena, la libertà condizionale, ecc).

Qui c’è un sistema fondato non più sulle colpe dei delinquenti (e quindi sulla responsabilità penale), ma sulla responsabilità oggettiva, a cui far conseguire la valutazione del trattamento più adeguato (medico, riabilitativo, o della mancanza di un trattamento..).

Lo scopo della pena è definito per mezzo del concetto di risocializzazione e si sottolinea l’importanza della esecuzione penale basata sul trattamento sanzionatorio.

La pena ha funzione risocializzante, in piena sintonia con la specialprevenzione positiva che cerca però altri sistemi alternativi alla carcerazione più utili della privazione della libertà.

Questo modello correzionale viene meno con la crisi dello stato sociale mettendo in crisi lo scopo Special-preventivo positivo: a partire dagli anno settanta si constata che non solo la prigione, ma anche gli altri strumenti alternativi alla detenzioni non riescono a conseguire quella rieducazione/riabilitazione del reo che i sistemi penali si erano posti come obiettivo primario.

La critica di questa teoria sosteneva che l’art. 27 fosse basato sulla prevenzione generale, e che in questo modo si finiva invece per sottolineare eccessivamente il ruolo della funzione correzionale della pena. I modelli di giustizia basati sulle idee preventive (dice la critica) diffondono nella società l’immagine di una giustizia diseguale ed arbitraria, che lascia sul campo solo due possibili scopi razionali della pena: la difesa sociale per mezzo del carcere e la retribuzione.

Nei paesi scandinavi si tendeva infatti ad affermare che la cosa migliore da fare con i delinquenti condannati è imprigionarli, perché la neutralizzazione (prevenzione special-negativa) dei rei e dei recidivi con il carcere o con la morte è il modo più economico di ridurre il crimine.

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