E’ questa la recente elaborazione dottrinale internazionale, che accoglie una impostazione non più volta al trattamento o al disciplinamento, ma alla retribuzione e alla neutralizzazione del deviante.

Lo scopo della pena è retributivo, a prescindere dai suoi ruoli ulteriori, dalla sua giustificazione e dai suoi obiettivi. Esemplare la legge dei tre colpi (three strikes and you’re out) presente in alcuni stati del nordamerica.

Perde dunque credito la teoria della prevenzione della criminalità incentrata sul criminale concepito come soggetto trattabile, modificabile e trasformabile in un essere normale. Anzi proprio tramite questo sistema le carceri hanno visto un notevole sovraffollamento a cui ha dovuto seguire l’istituto dell’indulto e altri sistemi di smaltimento dell’espansione.

In ogni caso, all’incremento del consenso all’uso del carcere e della neutralizzazione del criminale si accompagna anche la considerazione che l’equità sia conseguibile con una condanna alla pena meritata dai rei (c.d. dottrina del just desert), e dunque con la retri-buzione.

Questa dottrina della retribuzione, specie in america, sostituisce completamente gli obiettivi della prevenzione generale e della riabilitazione fino agli anni settanta. MODELLO AMERICANO (?)

Questa tendenza di accompagna a una corrente filosofica che riprende Kant e Hegel, e che riscopre il PENSIERO RETRIBUTIVO CLASSICO riaffermando le due tradizionali idee basi, di cui la prima è che la riabilitazione dei delinquenti condannati non è lo scopo della pena, nemmeno sussidiario perché “non rispetta l’autonomia dei condannati e beffa il diritto dei delinquenti ad essere puniti per il male causato intenzionalmente”.

Il primo argomento è sostanzialmente condivisibile nel momento in cui il perseguimento dello scopo rieducativo si lega a una concezione dello stato come manipolatore e terapeuta che cura il criminale con la presunzione di possedere sistemi di valore cui è bene educare, eliminando sostanzialmente il principio di libertà tipico dei metodi totalitari del novecento.

Il secondo argomento non è condivisibile, che pretendere che con il pentimento del reo si annulli il reato con l’effetto che la pena dovrebbe cessare, e secondo cui la pena opera come antidoto contro l’immoralità (teoria dell’espiazione).

A questa tesi si obietta che è più attinente all’etica e non al diritto, il quale deve invece avere finalità che interessino la comunità e non il singolo.

Ad analoga critica si espone la c.d. retribuzione morale, nel celebre passo di Kant che sostiene che, malgrado lo scioglimento della società, anche l’ultimo delinquente dovrebbe essere punito: non si comprende quale sia la giustificazione di una privazione della libertà, se non la necessità di tutelare la vita o altri beni essenziali delle presenti e delle future generazioni, esplicitamente assenti nell’immagine kantiana.

NEO- RETRIBUZIONISMO POSITIVO

E’ una teorizzazione penale delle ultime tre decadi del ventesimo secolo, che si basa sul principio per cui non soltanto non si deve punire l’innocente ( e non si deve punire il colpevole più di quanto meriti), ma che la giustificazione positiva della pena consiste nel suo carattere intrinseco di risposta meritata al crimine.

La meritevolezza è ragione necessaria e sufficiente della pena, per cui il compito necessario della condanna è la giustizia o la equità della punizione, e una condanna è giusta in relazione alla colpevolezza del reo e al danno provocato alla vittima e alla società: la pena giusta è retributiva.

Inoltre il secondo pilastro della tesi neoretribuzionista, è la risposta al quesito del perché debba essere lo Stato a infliggere tale sofferenza attraverso un sistema punitivo: la legge protegge i cittadini da certi tipi di illecito, facendo affidamento sui cittadini che accettano il peso dell’autocontrollo e del rispetto della legge; al contrario i criminali traggono beneficio dall’autocontrollo altrui, ma rifiutano tale peso, e quindi conseguono un vantaggio ingiusto che la pena rimuove imponendogli un peso supplementare.

La tesi non convince: ciò che rende il criminale meritevole di pena è il danno ingiusto che arreca alla singola vittima, non il descritto vantaggio ingiusto del criminale!

Questa posizione puramente retributiva non è comunque condivisibile perché fondata su due principi a priori, quando si sostiene che i colpevoli meritano di essere puniti e che nessuna considerazione morale attinente la pena può vincere tale meritevolezza. Riteniamo invece che non è vero che i rei meritino sempre di essere puniti, né che anche quando debbano essere puniti come meritano, chi castiga sappia sempre quel che meritano.

Questa teoria non spiega né giustifica l’istituto della pena perché dà per assunto che la pena sia prevista e imposta, ma non spiega perché è prevista. Non basta sostenere che la pena è prevista per mantenere l’autorità statale, e la pena non può avere il fine in sé stessa.

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