Il trattamento di fine rapporto è stato al centro di recenti sommovimenti legislativi, collegati alla riforma del sistema previdenziale. Il contesto di riferimento, in particolare, è quello:

  • della crisi del sistema previdenziale pubblico, incapace di sostenere il peso della tutela pensionistica di una popolazione con crescenti tassi di invecchiamento.
  • della cronica debolezza del mercato finanziario italiano, a causa dell’assenza di quei grandi investitori istituzionali rappresentati, altrove, proprio dai giganteschi fondi pensione.

La complementarietà tra queste esigenze ha indotto a cercare di sviluppare il c.d. secondo pilastro del sistema previdenziale, rappresentato appunto dalla previdenza complementare (o integrativa), gestito da fondi pensione variamente congegnati, che fossero in grado di raccogliere i contributi versati dalle imprese ed eventualmente dagli stessi lavoratori, erogando poi prestazioni pensionistiche aggiuntive.

Una prima riforma della previdenza complementare era stata realizzata con il d.lgs. n. 124 del 1993, in forza del quale era stato obbligatoriamente adottato, per i fondi in discorso, il regime delle prestazioni a contribuzione definita, ossia corrispondenti all’ammontare dei contributi versati, con una dote contributiva eventualmente trasferibile da un fondo ad un altro. Tali fondi hanno conosciuto un certo sviluppo, sebbene sia rimasto aperto il problema di come alimentarli in maniera consistente. L’attenzione si è così rivolta all’unica posta finanziaria concretamente a disposizione, vale a dire la massa degli accantonamenti per il trattamento di fine rapporto dei lavoratori.

Con il d.lgs. n. 252 del 2005, quindi è stata adottata una riforma complessiva dei fondi pensione che, sostituendo quella del 1993, ha operato la scelta di prevedere la tendenziale destinazione degli accantonamenti riservati alla maturazione del t.f.r. ai fondi pensione:

  • la destinazione è stata riservata al trattamento di fine rapporto ancora da maturare, lasciando intatto quello maturato.
  • la destinazione non è stata imposta forzosamente, rimanendo condizionata ad una manifestazione del consenso dei lavoratori.

A questo riguardo, tuttavia, è stata adottata la regola del silenzio-assenso, onde cercare di favorire al massimo la devoluzione del trattamento di fine rapporto ai fondi pensione: entro sei mesi dall’assunzione, il dipendente che voglia mantenere il trattamento presso l’azienda deve esprimere formalmente tale volontà, sottoscrivendo un apposito modulo, in assenza del quale il trattamento maturato viene devoluto ad un fondo pensione previsto dalla legge.

Una volta effettuata la destinazione degli accantonamenti ad un fondo, il dipendente perde il diritto alla maturazione del trattamento di fine rapporto corrispondente. Tali accantonamenti, al contrario, andranno ad alimentare il conto contributivo acceso presso il fondo pensione, con corrispondente erogazione di prestazioni previdenziali complementari.

Il Governo Prodi, con il d.lgs. n. 279 del 2006, inglobato nella legge finanziaria 2007, ha poi anticipato l’entrata in vigore della riforma dal 2008 al 1 gennaio 2007. Contestualmente a tale scelta, è stato anche stabilito che le imprese con almeno cinquanta dipendenti debbono provvedere a versare ad un apposito fondo di tesoreria istituito presso l’INPS le quote di trattamento di fine rapporto mantenute dai lavoratori per espressa manifestazione di consenso ex art. 2120. Tali quote daranno poi luogo, all’atto della cessazione del rapporto, all’ordinaria maturazione del trattamento.

Per effetto di questa misura, l’istituto del t.f.r. è stato profondamente modificato: esso, infatti, non viene più trattenuto, sotto forma di accantonamenti dalle imprese, bensì da queste riversato all’INPS.

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