Nella disciplina della malattia e dell’infortunio il bene protetto del lavoratore è ovviamente la salute (art. 32 Cost.). La disciplina attuale è incentrata sull’art. 2110, il quale, peraltro, fa molto conto, attraverso clausole di rinvio, sull’opera della contrattazione politica.

Il concetto di malattia a cui si fa riferimento in tale articolo, tuttavia, non equivale a quello utilizzato in ambito clinico: la malattia nell’ambito del rapporto di lavoro, infatti, consiste in uno stato patologico tale da determinare una condizione di incapacità al lavoro specifico svolto da quel lavoratore (soltanto uno stato che renda concretamente inabile al lavoro il dipendente è apprezzabile come malattia). Lo stato di malattia, pertanto, deve essere rapportato alle mansioni e al contesto ambientale: si considera inabile al lavoro, ergo malato o infortunato, colui che non sia ragionevolmente in grado di svolgere le sue mansioni, senza un significativo disagio o sofferenza fisica o senza correre il rischio di ulteriori aggravamenti.

I medici di controllo (medici fiscali), tuttavia, non si spingono quasi mai a verifiche di questo tipo: se il lavoratore afferma di sentirsi male, tali medici di norma confermano la certificazione del medico di fiducia del lavoratore, senza operare, come invece dovrebbero, verifiche puntuali. Nella maggior parte dei casi, quindi, la malattia certificata viene presa per buona, essendo difficile per il datore di lavoro disconoscerla.

Gli unici casi in cui la contestazione è di fatto possibile sono quelli in cui il lavoratore viene sorpreso a svolgere attività completamente incompatibili con lo stato di malattia (es. agenzie investigative, incontri occasionali). Al riguardo, il principio guida è quello per cui il malato non ha un divieto assoluto di condurre attività durante la malattia, bensì soltanto il divieto di svolgere quelle incompatibili, che dimostrino in radice l’inesistenza di tale stato. La conseguenza della violazione di tali canoni di condotta è la proclamazione di ingiustificatezza dell’assenza dal lavoro, con applicazione delle relative sanzioni (es. licenziamento).

La disciplina dell’art. 2110, come detto, si applica anche in caso di infortunio. La differenza con la malattia è che l’infortunio deriva da una causa violenza , ossia traumatica, ma lo conseguenza sullo stato del lavoratore è la medesima.

Uno dei problemi più delicati della disciplina della malattia è quello dell’accertamento di tale stato, che si suddivide a propria volta in due fasi, quella della comunicazione e certificazione della malattia da parte del lavoratore, e quella del controllo vero e proprio, attraverso gli strumenti riconosciuti dall’ordinamento:

  • il lavoratore, sulla base della disciplina dei contratti collettivi, è tenuto ad una comunicazione immediata dell’assenza per malattia, la quale deve essere seguita, entro il termine previsto dai contratti (di norma tre giorni), dalla trasmissione di un certificato rilasciato dal proprio medico di fiducia. In caso di omesso o ritardato rinvio della comunicazione e soprattutto del certificato, l’assenza è di solito considerata come ingiustificata, con la conseguente applicazione di sanzioni disciplinari.

Per i lavoratori pubblici, peraltro, è stato previsto dall’art. 71 co. 2 della l. n. 133 del 2008 che nell’ipotesi di assenza per malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni, e, in ogni caso, dopo il secondo evento di malattia nell’anno solare , l’assenza possa essere giustificata soltanto mediante presentazione di certificazione sanitaria rilasciata da una struttura sanitaria pubblica.

  • il datore di lavoro, da parte sua, può:
    • accettare tale certificazione.
    • sottoporre il lavoratore a contratto attraverso la c.d. visita fiscale, la quale però non può essere effettuata attraverso medici di fiducia del datore di lavoro, ma soltanto attraverso medici pubblici (imparziali). Tale divieto, disposto dall’art. 5 St. lav., pur essendo molto importante, in un primo tempo produsse un forte incremento del tasso di assenteismo per malattia.

Proprio per rendere più efficace il sistema dei controlli, il sistema è stato perfezionato (l. n. 638 del 1983) introducendo il meccanismo delle c.d. fasce orarie di reperibilità, che comporta che il lavoratore debba rimanere in caso per fasce orarie fisse, per sottoporsi alla visita del medico fiscale. Tali fasce, in particolare:

  • nel settore privato vanno dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19 di tutti i giorni.
  • nel settore pubblico, nell’ambito della lotta all’elevato tasso di assenteismo, vanno dalle 8 alle 13 e dalle 14 alle 19 di tutti i giorni (l. n. 133 del 2008).

Qualora il lavoratore non venga rinvenuto in casa dal medico fiscale durante le fasce orarie senza un giustificato motivo:

  • subisce (eventualmente) una sanzione disciplinare (escluso il licenziamento).
  • subisce una decurtazione del trattamento economico di malattia.

  • il medico fiscale, a seguito della visita, può:
    • confermare la prognosi del medico privato.
    • smentire o ridurre la prognosi.

In quest’ultimo caso il lavoratore malato dovrebbe tornare al lavoro, sebbene in un eventuale futuro giudizio, il responso del medico fiscale possa essere rovesciato: esso, infatti, non ha un valore di prova legale della malattia, ma soltanto quello di una valutazione tecnica qualificata.

A questo punto, devono essere presi in esame gli effetti che l’ordinamento ricollega a ciascun evento, anzitutto sotto il profilo della giustificatezza dell’assenza dal lavoro e della conservazione del posto. La norma di riferimento, al riguardo è l’art. 2110 co. 2, in forza della quale il datore di lavoro ha diritto di recedere dal contratto (licenziare) il lavoratore soltanto una volta che si decorso un periodo stabilito dalla legge, dalle norme corporative (contratto collettivo), dagli usi e dall’equità. Tale periodo di tolleranza, in particolare, prende il nome di periodo di comporto.

Nei contratti collettivi di norma sono previsti due tipi di comporto:

  • comporto secco (aggirabile), secondo il quale un lavoratore ha diritto ad assentarsi per un determinato periodo di tempo consecutivamente (es. sei mesi).
  • comporto per sommatoria, in base al quale un lavoratore può rimanere assente non soltanto per un determinato periodo di tempo consecutivamente (es. sei mesi consecutivi), ma anche per non più di quel periodo di tempo complessivamente (es. sei mesi complessivi), cumulando i periodi in un arco di tempo che, di norma, corrisponde a tre anni.

Se il lavoratore supera l’uno o l’altro periodo di comporto, egli può essere licenziato, appunto, per superamento del comporto, che configura un’ipotesi a sé di giustificato motivo di licenziamento, con preavviso (art. 2110 co. 2).

Se il contratto collettivo non prevede un periodo di comporto per sommatoria (ipotesi attualmente piuttosto rara), esso deve essere determinato dal giudice secondo equità. A tale giudice, in particolare, viene suggerito di seguire il termine temporale previsto dalla Cassazione: prendere come riferimento il termine previsto dal comporto secco, applicandolo alle assenze verificatesi, anche in modo intermittente, in un arco temporale di tre anni, calcolati a ritroso dall’ultima assenza. Se il licenziamento interviene a comporto ancora in essere, occorre prendere in esame due casi:

  • se esso è stato irrogato proprio in ragione della malattia (es. calcolo erroneo del comporto), esso si ritiene nullo.
  • se esso è stato intimato per motivi diversi dalla malattia, esso è temporaneamente inefficace sino a quando perduri la malattia.

A tale regola, tuttavia, fa eccezione il caso di un licenziamento per giusta causa, il quale ha un’efficacia immediata a dispetto dell’esistenza di uno stato di malattia (es. violazione del dovere di non compromettere il recupero del proprio stato di salute).

L’art. 2110 co. 1, occupandosi del sistema retributivo (principio di corrispettività), dispone che per il periodo di assenza di malattia il lavoratore ha diritto alla retribuzione nella misura prevista dai contratti collettivi. Non è detto che tale retribuzione sia pari al 100% per tutto il periodo del comporto, tuttavia, in favore di molte categorie di lavoratori (es. operai), a colmare il vuoto per garantire una retribuzione piena interviene l’INPS, tramite l’erogazione di un’indennità economica, la quale solleva il datore di lavoro dall’assolvimento dell’obbligo retributivo corrispondente.

Per i lavoratori pubblici, l’art. 71 della l. n. 133 del 2008 ha previsto un regime retributivo teso a scoraggiare al massimo le assenze per malattie o infortunio non lavorativi, prevedendo che per i primi dieci giorni di assenza a tale titolo sia corrisposto al lavoratore soltanto il trattamento economico fondamentale, con esclusione di ogni indennità accessoria.

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