Come detto, non è sufficiente che la legge e il contratto collettivo si inseriscano nella disciplina del contratto individuale, occorrendo anche che essi abbiano la forza di prevalere su eventuali clausole individuali difformi. Prima del contratto collettivo, ovviamente, viene la legge, in ordine alla quale la forza giuridica della norma nei confronti degli atti e dei patti individuali è più facilmente acquisibile e giustificabile.

Il diritto del lavoro, comunque, fin dalla sua nascita, non avrebbe potuto svolgere efficacemente la propria funzione protettiva se non si fosse posto come norma di ordine pubblico, e quindi imperativa. Tale carattere di imperatività è stato razionalizzato dalla dottrina, che lo ricollega:

  • alla particolare e generale valenza della protezione dei diritti dei lavoratori subordinati.
  • alla condizione di debolezza soggettiva del lavoratore subordinato sia prima che dopo la stipulazione del contratto.

Le norme imperative si impongono in maniera cogente a coloro cui si rivolgono, e comportano quindi, in base all’art. 1418 co. 1, la nullità non soltanto degli atti, ma anche delle norme contrattuali difformi da esse. Si tratta, comunque, di una nullità parziale che non mette in discussione il contratto nella sua interezza: le norme lavoristiche, quindi, in quanto imperative, sono anche inderogabili.

L’imperatività e l’inderogabilità, tuttavia, guardano soltanto in un’unica direzione, proibendo l’applicazione di trattamenti peggiorativi per il lavoratore, ma continuando ad accettare, viceversa, atti o patti che abbiano come risultato un miglioramento dei predetti trattamenti

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