Se, al contrario di quanto detto, l’impresa appaltatrice non è un’impresa autentica, essendo priva di una reale autonomia produttiva e organizzativa, in tal caso i lavoratori addetti allo svolgimento dell’appalto risultano utilizzati come dipendenti, di fatto, dell’impresa appaltante. Non si è quindi di fronte all’apparto ex art. 1655, bensì ad una mera fornitura o somministrazione di manodopera (appalto di manodopera), ovvero ad un’interposizione di un datore di lavoro puramente fittizio (appaltatore) in un rapporto che, di fatto, intercorre fra i lavoratori e il datore di lavoro (appaltante). Dal momento che simili situazioni sono tradizionalmente mal viste dalla legge (es. fenomeno del caporalato), per farvi fronte era predisposto l’art. 1 della l. n. 1369 del 1960, il quale sanciva l’assoluta illiceità di simili forme di appalto. Tale previsione conteneva anche una presunzione, in base alla quale si configurava sicuramente un appalto di manodopera quando l’impresa appaltatrice impiegava macchine, capitali e attrezzature appartenenti all’impresa appaltante. Questa circostanza era ritenuta il segno indelebile dell’assenza di un’autonomia organizzativa, nel senso che l’impresa che utilizzava macchine, capitali e attrezzature dell’impresa appaltante era considerata un’impresa posticcia .

La presunzione in esame, tuttavia, risalendo al 1960, manifestava pesanti segni di obsolescenza, i quali sono stati risolti da una sentenza del 1990 della Corte di Cassazione. Essa, intervenendo in relazione ad un contratto di appalto che aveva per oggetto lo sviluppo di programmi informatici, dette avvio ad un orientamento giurisprudenziale più elastico, focalizzandosi sull’esistenza o no, in capo all’appaltatore, di un’autonoma organizzazione dell’impresa, e soprattutto commisurando gli indici rivelatori di detta autonomia alla natura dell’attività dedotta in appalto (in un appalto pesante continuano ad avere rilevanza le macchine, mentre in un appalto leggero si fa riferimento al dato immateriale della spendita di un know-how).

Si è lungamente indugiato sull’evoluzione del precedente assetto normativo e giurisprudenziale, perché le pur rilevanti novità apportate dal decreto del 2003 hanno sostanzialmente mantenuto fermo il divieto di interposizione. Peraltro, nello stabilire il confine tra somministrazione di lavoro e appalto, il legislatore ha sostanzialmente recepito i vari apporti recati dalla giurisprudenza. È così scomparsa la rigida presunzione legale circa l’uso, da parte dell’appaltatore, di macchine, capitali e attrezzature fornite dall’appaltante.

Quanto detto si è condensato nella disposizione di cui all’art. 29 co. 1, di centrale rilevanza ai fini ricostruttivi: il contratto di appalto si distingue dalla somministrazione di lavoro per l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori impiegati nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte del medesimo, del rischio d’impresa . Come si vede, sono menzionati i due requisiti che identificano l’appalto ex art. 1655 (organizzazione e rischio), ma le novità sono tutt’altro che irrilevanti:

  • la linea divisoria tra appalto genuino e appalto fittizio è rappresentata dal fatto che l’appaltatore conduca l’appalto in questione con autonomia organizzativa e gestione a proprio rischio.
  • come corollario, non è più richiesta la titolarità dei mezzi di produzione da parte dell’appaltatore, così che anche se l’appaltatore impiega macchine di proprietà dell’appaltante rimane possibile provare altrimenti la genuinità dell’appalto.
  • l’organizzazione dei mezzi necessari deve commisurarsi alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto (appalto pesante/ leggero).

L’effetto pratico della nuova formulazione, quindi, sta nel rendere più facili le operazioni di esternalizzazione, riducendo il rischio che certi appalti siano ritenuti pregiudizialmente non genuini.

La normativa è completata dalla previsione di un apposito regime sanzionatorio, il quale, in analogia con il vecchio art. 1 della l. 1369 del 1960, dispone che in caso di contratto di appalto stipulato in violazione dei requisiti di cui all’art. 29 co. 1, il lavoratore può richiedere la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze di chi ne ha utilizzato la prestazione, con effetto dall’inizio di tale utilizzazione. L’art. 27 co. 2, peraltro, ha altresì previsto che gli atti e i pagamenti compiuti, anteriormente alla sentenza costitutiva, dal datore di lavoro fittizio, o interposto, hanno effetto anche nei riguardi del reale datore di lavoro. In questo modo, infatti, si evita che quest’ultimo si trovi a dover nuovamente soddisfare debiti già onorati dal predecessore

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