Sulle forme di rivalutazione giudiziale dei crediti esistono storie separate per i diversi ordinamenti. Il comune indirizzo è di considerare comunque eccezionale l’intervento del giudice in tale materia perché causa od occasione di insicurezza nelle contrattazioni e fonte di un decisionismo che sovente potrà apparire arbitrario. Critici a fautori dell’intervento giudiziale fanno in genere riferimento all’esperienza della giurisprudenza tedesca degli anni ’20 come modello alternativo a quello della rivalutazione operante per le vie legislative, gli uni per evidenziarne i rischi e gli svantaggi, gli altri, per esaltarne i meriti.

Si è trattato di una forma di rivalutazione non riconducibile ad alcun concetto legale ma affidata al puro apprezzamento del giudice. Questo indirizzo giurisprudenziale i contrappone ad altro indirizzo che aveva invece rifiutato di fare uso di teorie e di principi praticabili alla stregua del postulato secondo cui non poteva considerarsi di pertinenza dei giudici di prendere in considerazione tempi e circostanze per modificare le convenzioni delle parti e sostituire delle clausole accettate dalle parti.

La funzione è di correggere rapporti obbligatori ma in situazioni date, tendendosi a sottolineare che la ragione giustificativa di tale intervento va ricercata in specifiche ragioni di carattere sociale. Sotto il vigore del codice attuale, la giurisprudenza ha potuto esercitare una funzione per così dire di supplenza rispetto ad un carente intervento legislativo e ad una iniziativa delle parti che non mostrava eccessiva fiducia nella efficacia di clausole di salvaguardia.

Il principio cui la giurisprudenza ha fatto richiamo è quello della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta (1467) a seguito del verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, principio non contemplato nel codice abrogato, sotto il vigore del quale si era invece arrovellata la dottrina per individuare analogo principio di sostegno.

Ma no è certo dall’applicazione del rimedio costituito dalla modificazione equitativa delle condizioni del contratto (1467 comma 3) che ci si poteva attendere un significativo indirizzo giurisprudenziale a tutela dei crediti deprezzati. Ben più significativa dovrà apparire l’opera della giurisprudenza costituzionale in quelle evenienze in cui si trattava di difendere il valore economico di un credito contro disposizioni di legge che quel valore finivano con il vanificare proprio attraverso il vigore generalizzato del principio nominalistico, corazzato dal divieto di deroga.

E così si può dire che esiste un filo diretto che lega un indirizzo risalente della Corte costituzionale in difesa del valore reale e non meramente simbolico dell’indennità di esproprio ad un indirizzo più recente che, su diverso terreno, si è preoccupato della salvaguardia del valore economico dei crediti ai quali in teoria si dovrebbe ritenere essere applicabile il principio nominalistico. L’indirizzo esposto vedela Cortecostituzionale assumersi il ruolo della difesa del valore economico di ragioni di credito alle quali, pure in teoria, sarebbe applicabile il principio nominalistico e cioè quello dell’irrilevanza delle oscillazioni monetarie.

E si può dire che, di volta in volta,la Cortecostituzionale sia ricorsa a diversi metodi razionali di decisione. Il pericolo temuto è che, attraverso interventi sulla libertà contrattuale ne risulti pregiudicata la garanzia costituzionale del valore economico della proprietà di beni produttivi. È in tale direzione che si viene a forzare anche la normativa sulle obbligazioni pecuniarie, postulando una copertura costituzionale anche al valore economico di tali obbligazioni, ed introducendosi dunque una deroga, pur implicita, al vigore generalizzato del principio nominalistico che quel valore economico può mettere in discussione.

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