Un’altra ipotesi di danno meramente patrimoniale riguarda il danno subìto dal datore di lavoro che ha continuato a pagare la retribuzione al lavoratore assente per malattia cagionata dal fatto illecito di un terzo, contro il quale il datore propone domanda di risarcimento.

La ragione giuridica di tale azione risiede nel 2110.1 (Infortunio, malattia, gravidanza, puerperio), che obbliga il datore di lavoro a pagare ugualmente la retribuzione al lavoratore, assente per ragioni di salute, ove non ricorrano forme equivalenti di previdenza o di assistenza.

Tale regola fa sì che il lavoratore leso nell’integrità fisica e psichica dal fatto illecito del terzo non possa invocare contro quest’ultimo il risarcimento del lucro cessante, poiché ha continuato a percepire la retribuzione.

Ciò renderebbe indenne, nei limiti del lucro cessante, l’autore dell’illecito, se il datore non potesse far valere contro di esso la diminuzione patrimoniale costituita dalla retribuzione non lavorata: questa situazione di favore per il danneggiante si era verificata in una breve fase di passaggio nella quale la giurisprudenza, non più proclìve ad accordare il risarcimento al lavoratore danneggiato quando questi avesse continuato a ricevere la retribuzione, non aveva ancora individuato il profilo in grado di giustificare il ristoro patrimoniale invocato dal datore di lavoro.

Sotto il profilo formale, si fece strada l’idea che il 2110.1 è in grado di giustificare il costo di malattia imposto al datore solo nella logica del puro scambio tra esso e il lavoratore.

Eccepire, come pure si fece talora ad opera del danneggiante nei confronti del datore, che a quest’ultimo il 2110 impone di pagare la retribuzione al lavoratore durante la malattia, significava invocare una norma che disciplina esclusivamente il rapporto tra datore e lavoratore.

Una fattispecie più complessa nella quale la malattia del lavoratore si riveli frutto del fatto illecito del terzo pone la questione se il costo del danno fatto gravare dal 2110 sulla sfera giuridica del datore di lavoro non sia da riallocare a propria volta.

Alla Cassazione che decise per la prima volta la questione in senso positivo (Cass. 2105/1980) si pose un ostacolo ulteriore, costituito dal fatto che la diminuzione patrimoniale subita dal datore di lavoro sfuggiva a quella immediatezza con l’illecito (lesione dell’integrità fisica del lavoratore) imputato al terzo, che il 1223, parlando di conseguenza immediata e diretta, prevede come necessaria qualifica di risarcibilità del danno.

La Suprema corte inquadrò la vicenda nel modello della lesione aquiliana del credito, la quale è afflitta a sua volta da una non risolta compatibilità col 1223 (perché ove pure si consideri la lesione del credito conseguenza diretta e immediata del danno alla persona del debitore, rimane il problema che anzitutto si tratta della lesione di una situazione soggettiva, inoltre che tale lesione riguarda una sfera giuridica diversa da quella del danneggiato in via primaria, laddove il 1223 si riferisce alle conseguenze riguardanti ciascuna singola lesione).

Sennonché si fece subito notare che in realtà il datore di lavoro con la domanda risarcitoria nei confronti del terzo non faceva valere il mancato adempimento della prestazione di lavoro, ma la pura e semplice diminuzione patrimoniale consistente nella retribuzione pagata al lavoratore senza corrispettivo.

L’obiezione persuase la Cassazione, la quale affermò (Cass. 4550/1985) che “la questione si pone non tanto in relazione alla lesione aquiliana del diritto di credito, quanto in relazione al recupero della perdita patrimoniale, conseguita alla corresponsione della retribuzione senza che vi sia stata una corrispettiva prestazione del dipendente”: un danno puramente economico.

Adolfo di Majo rilevò tuttavia che il danno meramente patrimoniale, in quanto non costituito dalla lesione di una situazione soggettiva, rimette inevitabilmente al giudice la valutazione circa l’ingiustizia.

Una volta superato il riferimento al diritto di credito quale oggetto della lesione, è il patrimonio come tale che risulta impoverito senza un’apparente giustificazione; riconnettere la diminuzione patrimoniale direttamente al fatto illecito del terzo implica l’assunto che la lesione del patrimonio è ingiusta.

Per i sostenitori della clausola generale di responsabilità la soluzione è invece coerente.

Alberto Asquini (1889-1972), in una stagione precedente, aveva ritenuto che nell’ipotesi in esame la tutela del datore di lavoro fosse possibile applicando per analogia il 1916, che disciplina il “Diritto di surrogazione dell’assicuratore”: come quest’ultimo, il datore di lavoro ristora il danneggiato della perdita subita, onde un’identica ratio sembrerebbe consentire la medesima tutela.

La tesi non può essere accolta.

La norma potrebbe non essere eccezionale, ma difetta in ogni modo il presupposto dell’analogia in quanto il datore di lavoro non può essere considerato un assicuratore del lavoratore, dovendo ritenersi la piena natura retributiva della prestazione spettante al lavoratore.

Il patrimonio del datore di lavoro non subisce una diminuzione automatica per il semplice verificarsi della lesione alla persona del lavoratore; il decremento è mediato invece dal pagamento della retribuzione che il datore, in seguito all’illecito, continua a prestare in ottemperanza alla previsione del 2110.

{In questi termini si mette in luce una differenza ulteriore rispetto al danno da lesione del diritto di credito, in quanto tale ultimo danno si verifica invece per il solo fatto dell’offesa subita dall’integrità fisica del lavoratore, la quale rende inattuabile il rapporto obbligatorio.

Questo aspetto sfugge a coloro che insistono nel tentativo di qualificare la fattispecie in questione come lesione aquiliana del credito: ad es. Dianora Poletti e Francesco Donato Busnelli.

La differenza tra danno da lesione del credito e retribuzione pagata a vuoto è chiaramente individuata da Wolfgang Freiherr Marschall von Bieberstein, il quale sottolinea che il danno da lesione del credito fa parte dei danni propri del datore di lavoro (noi diremmo, conseguenti alla lesione di una situazione soggettiva), la retribuzione pagata a vuoto fa parte dei danni ulteriori e riflessi (noi diremmo, meramente patrimoniali, conseguenza della lesione di una situazione soggettiva altrui)}.

Mentre il parlare di lesione del credito consentirebbe, nonostante il 1223 (Risarcimento del danno), di ricondurre entro lo schema della responsabilità civile la perdita patrimoniale subita dal datore di lavoro (residuerebbe però l’ostacolo di una duplice antigiuridicità-lesività della medesima condotta), ciò non è più possibile ove si metta in luce che tale perdita non è costituita dalla lesione del credito alla prestazione di lavoro, ma dal puro pagamento di una retribuzione non lavorata.

L’ostacolo che in questo caso erge il 1223 appare insuperabile: la perdita subita dal datore di lavoro arriva per così dire fredda nel suo patrimonio.

Andando a ritroso, essa perde altresì i connotati del fatto illecito e correlativamente dell’ingiustizia; e trova conferma l’idea che una perdita patrimoniale la quale non consegua dalla lesione di una situazione soggettiva non dà origine a responsabilità civile.

Sfuma ancora una volta l’idea di un danno al patrimonio come tale risarcibile.

Tuttavia, si mette in luce un’altra disciplina alla quale più propriamente ricondurre il fatto.

La somma pagata dal datore di lavoro a titolo di retribuzione durante l’inabilità del lavoratore dovuta al fatto illecito del terzo si identifica con il lucro cessante che il terzo non ha dovuto risarcire al lavoratore: il danneggiante finisce col profittare di un pagamento cui altri è tenuto, pagamento che estingue l’obbligazione risarcitoria per conseguimento dello scopo in quanto realizza il medesimo interesse sotteso a quest’ultima, cioè il medesimo risultato che il danneggiato conseguirebbe mediante il risarcimento.

{Si verifica in questo caso una estinzione dell’obbligazione per conseguimento dello scopo, concetto teorizzato nel 1938 da Salvatore Orlando Cascio}.

Il 2110 non può servire a sottrarre l’autore dell’illecito alla sua obbligazione, perché l’obbligazione del datore di lavoro c’è e si giustifica fino a quando proprio l’invalidità del lavoratore che sia riconducibile al fatto illecito di un terzo non ponga il problema su quale delle due sfere giuridiche (datore di lavoro o danneggiante), a titolo diverso tenute al pagamento della retribuzione-lucro cessante, debba alfine ricadere il costo rappresentato dall’assenza forzata del lavoratore.

La soluzione potrebbe essere tentata sul piano della meritevolezza degli interessi in gioco, proclamando comparativamente poziore l’interesse del datore di lavoro rispetto a quello dell’autore dell’illecito per lo stìgma negativo che caratterizza quest’ultimo.

Ma si potrebbe replicare che l’obbligazione risarcitoria può nascere anche da fattispecie di responsabilità oggettiva nelle quali l’allocazione del costo su un soggetto non è funzione della valutazione sociale negativa che ricorre nella responsabilità per colpa.

Le regole di responsabilità, soggettiva od oggettiva, indicano che quando un evento si qualifica come danno per così dire d’autore, è quest’ultimo a dovere sopportare il costo del danno stesso.

Questo implica che per ogni altro soggetto tale costo è non dovuto, onde esso può essere domandato al responsabile da chi lo abbia subìto o comunque pagato.

La regola che individua il soggetto deputato a sopportare il costo del danno non implica necessariamente che tale costo sia sostenuto a titolo di responsabilità.

Non è questa ultra attività dell’illecito, per due motivi:

a. perché ciò implicherebbe l’esistenza di una situazione soggettiva a tutela del patrimonio;

b. perché la perdita esibita dal datore di lavoro non è conseguenza diretta ed immediata del fatto illecito del terzo, come invece è la lesione alla persona del lavoratore.

Quella che rileva nel rapporto tra datore di lavoro e autore dell’illecito è solo una comparazione tra patrimoni, uno di essi risultando impoverito esattamente di quanto permane nel patrimonio dell’altro.

In ultima analisi la disciplina dell’arricchimento ingiustificato si rivela la più propria a reggere il caso anche se pure l’arricchimento è mediato dall’attribuzione patrimoniale a favore di un soggetto (il danneggiato) diverso da quello che risulta arricchito (il danneggiante).

La difficoltà è tuttavia superabile perché nulla autorizza a leggere l’espressione “correlativa diminuzione patrimoniale”, di cui al 2041 (Azione generale di arricchimento) alla stregua della “conseguenza immediata e diretta” di cui al 1223 (Risarcimento del danno).

Una conferma, per contrasto, della tesi che individua nell’arricchimento ingiustificato l’istituto al quale ricondurre la tutela giuridica del datore di lavoro per la perdita patrimoniale conseguente alla lesione dell’integrità fisica del dipendente viene dalla sentenza Cass. S.U. 6132/1988, la quale ha riconosciuto al datore di lavoro il risarcimento del danno consistente nella retribuzione e nei contributi previdenziali pagati nel periodo di assenza del lavoratore.

L’affermazione nuova che pure il costo di questi ultimi va risarcito non giustifica però il ritorno alla lesione aquiliana del diritto di credito, alla quale la Cassazione è riapprodata.

Che non si tratti di lesione del credito emerge tra l’altro considerando che con la sentenza 6132/1988 le stesse Sezioni unite passano sopra ai due punti qualificanti della tutela aquiliana del diritto di credito nei termini in cui la stessa Cassazione ha accreditato questa figura (Cass. S.U. 174/1971): la definitività ed irrimediabilità della perdita subita dal creditore e l’essere queste conseguenze dell’infungibilità della prestazione divenuta impossibile per il fatto del terzo.

Infatti nella grandissima parte dei casi non viene meno per il datore di lavoro la possibilità di soddisfare ugualmente, mediante una sostituzione, l’interesse originariamente soddisfatto dalla prestazione del lavoratore infortunato.

A giustificare l’estensione del risarcimento anche alla somma pagata dal datore per contributi previdenziali, la Cassazione afferma che il valore economico della prestazione mancata – cui va rapportato il danno del datore di lavoro – non è dato esclusivamente dallo stipendio versato ma dal costo complessivo di quella prestazione […] rappresentato anche dall’importo dei contributi previdenziali.

Se questa è la ragione del risarcimento accordato al datore di lavoro, viene fatto di chiedersi che cosa possa aver indotto le Sezioni unite a rispolverare, per il risarcimento in questione, la cosiddetta lesione aquiliana del credito.

La retribuzione ed i contributi costituiscono (tutto o parte di) ciò di cui il danneggiante si arricchirebbe nei confronti del datore ove non fosse fatto rispondere nei confronti di quest’ultimo.

{Sul piano comparatistico la conferma che la perdita patrimoniale del datore di lavoro vada risolta in arricchimento è data dalla Lohnfortzahlungsgesetz (legge tedesca sulla salvaguardia della retribuzione), che attribuisce al datore l’azione per la restituzione di quanto ha continuato a pagare al lavoratore.

Si tratta di una cessio legis dell’azione spettante al lavoratore}.

L’insufficienza della lesione aquiliana del credito a dare forma giuridica al danno subìto dal datore di lavoro si manifesta in un’altra sentenza, più recente, della Cassazione.

Ha affermato infatti il Supremo collegio che l’esborso delle retribuzioni e dei relativi contributi previdenziali obbligatori esprime il normale valore delle prestazioni perdute […] salva […] la risarcibilità dell’ulteriore pregiudizio […] in caso di comprovata necessità di sostituzione del lavoratore assente […] o di particolare nocumento alla produzione.

Risulta chiaro come delle due voci di danno messe in evidenza, solo la seconda (l’ulteriore pregiudizio) corrisponda alla lesione del credito, in quanto danno conseguente dalla mancata attuazione del rapporto obbligatorio, laddove la retribuzione e i contributi pagati e non lavorati si collocano su un piano ulteriore, quello stabilito dal 2110, che regola il rapporto come se l’obbligazione del lavoratore fosse stata pienamente attuata, onde il datore di lavoro continua ad essere tenuto alle prestazioni corrispettive.

La decisione ultima ha affrontato una questione parallela: si trattava di stabilire se la medesima formula giuridica adoprata nei confronti del datore di lavoro fosse ripetibile con riguardo ad una società di persone alla quale il socio danneggiato dal fatto illecito del terzo non abbia potuto dare il proprio apporto d’opera.

Dice la Cassazione che in una ipotesi del genere il danno subìto dalla società può consistere nella diminuzione degli utili, quando agli stessi il socio danneggiato abbia continuato a partecipare in tutto o in parte, e/o nella retribuzione e nei contributi che la società abbia continuato a pagare.

Ancora una volta la prima voce di danno è inscrivibile nella lesione del credito: la diminuzione degli utili è conseguenza della mancata attuazione della prestazione del socio; la seconda è quella che propriamente trova fondamento in un obbligo della società di pagare ugualmente la propria prestazione nei confronti del socio come se il rapporto avesse ricevuto regolare esecuzione.

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