Nelle sentenze 8827 ed 8828 del 2003 la Cassazione ha dato l’addio al danno esistenziale in favore di un danno alla persona unitariamente concepita.

La ragione di questa svolta va ricercata da un lato nella persuasione che il danno esistenziale sia solo un nome nuovo per una categoria antica, il danno morale, sicché non riesce a scagionarsi dalle stesse limitazioni che riguardano quest’ultimo; dall’altro nell’idea che la Costituzione protegge la persona mediante una raggiera di situazioni soggettive, che esigono analoga tutela che la salute, la quale si rivela solo una di esse.

Dopo che la Consulta aveva rifiutato di avallare l’idea, invero insostenibile, che il danno morale dovesse ritenersi ricompreso nella categoria del danno biologico, idea concepita al fine di ricavarne la medesima tutela che assiste quest’ultimo, non più soggetta a limiti e compressioni in base ad una scelta discrezionale del legislatore come operata dal 2059 (secondo quanto affermato dal giudice rimettente in quel caso, Tribunale di Bologna, 13.06.1995), il danno morale continuava a rimanere legato ai vincoli di tale norma.

I vincoli risultavano significativi in particolare nella materia dei danni da circolazione di veicoli, come si esprime la rubrica del 2054.

Poiché sia il comma I che il comma II del 2054 obbligano al risarcimento il conducente che non abbia dato la prova della mancanza di colpa, l’obbligazione risarcitoria scaturente dal danno da circolazione non può contenere il danno morale, dato che esso, stante il 2059 (Danni non patrimoniali), presuppone che il fatto costituisca reato, e questo ulteriormente esigerebbe la prova della colpa, della quale invece il 2054 fa a meno.

{Stesso discorso vale per le altre norme di responsabilità che prevedono un’inversione dell’onere della prova a carico del convenuto}.

Per uscire dall’impasse si aprivano due strade:

a. sublimare il danno morale mediante la stessa tecnica che aveva dato vita al danno biologico, inscrivendolo nella lesione di una situazione costituzionalmente tutelata;

b. attaccare il 2059 nella parte in cui non consente il risarcimento se non attraverso la prova della colpa.

La prima strada conduce al danno alla persona come lo abbiamo prima descritto.

La seconda strada ha portato diritto davanti alla Corte costituzionale.

La Cassazione, con sentenza 7283/2003, aveva in anticipo riletto il 185 c.p. (Restituzioni e risarcimento del danno), riputando che il risarcimento del danno morale da esso previsto non necessita della prova della colpa.

Dice la Cassazione: Posto che se la colpa fosse sussistente, il fatto integrerebbe il reato e il danno non patrimoniale sarebbe dunque risarcibile, la non superata presunzione di colpa [di cui al 2054] altro non significa che essa agli effetti civili sussiste.

Secondo il 185 c.p., però, la colpa deve sussistere agli effetti penali.

Inoltre, a voler essere rigorosi, il 185 c.p. adotta la formula testuale Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, la quale evidentemente si riferisce ad un reato accertato come tale e dal quale sia scaturito il danno di cui è questione.

La Corte costituzionale, nella sentenza 233/2003, nell’aderire pienamente alla Cassazione, sembra rimanere prigioniera di analoghe difficoltà.

Sulla base dell’assunto che il 2059 (Danni non patrimoniali), in seguito alla vicenda del danno biologico e delle altre ipotesi di lesione di situazioni costituzionalmente protette, avrebbe perduto la sua connotazione sanzionatoria, essa afferma che il riferimento al reato contenuto nel 185 c.p. non postula più, come si riteneva in passato, la ricorrenza di una concreta fattispecie di reato, ma solo di una fattispecie corrispondente nella sua oggettività all’astratta figura di reato.

Con la conseguente possibilità che ai soli fini civili la responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge.

In questo ragionamento mi pare che vi siano un salto ed un fraintendimento.

Il salto è costituito dall’implicazione, tratta dalla premessa che il 2059 non avrebbe più funzione sanzionatoria, di una lettura alternativa del 185 c.p.

Il fraintendimento è costituito dalla stessa lettura alternativa, che consisterebbe nel ritenere sufficiente la corrispondenza del fatto all’astratta previsione di una figura di reato.

Quanto al primo punto, il venir meno della funzione sanzionatoria messo a frutto fino in fondo dovrebbe portare alla recisione del cordone ombelicale tra la norma civile e quella penale.

Parlare di corrispondenza del fatto concreto alla figura del reato in astratto non cambia le cose, perché da sempre il fatto sta alla fattispecie come il concreto sta all’astratto.

La corrispondenza alla fattispecie criminosa implica la verifica di ognuno degli elementi che la costituiscono; e tra essi della colpevolezza.

Laddove nell’illecito civile di specie la colpevolezza manca ed è sostituita da una valutazione normativa: la presunzione, che qualifica come avvenuto un fatto od un elemento di esso non provato in giudizio.

Se ci si ferma alla fattispecie civile, la corrispondenza, pur in astratto, alla fattispecie criminosa, non ci sarà mai; e cade la possibilità di veder osservato il 185 c.p.

{Corte cost. 233/2003, benché investitane dal giudice rimettente, non affronta la questione di legittimità costituzionale del 2059 sotto il profilo della limitazione al risarcimento del danno non patrimoniale che tale norma pone, per la necessità che a tal fine ricorra uno dei casi determinati dalla legge.

Tale questione viene dichiarata inammissibile dato che ai fini della decisione del caso viene ritenuto sufficiente quanto dalla stessa affermato in punto di rapporti tra il 2059 ed il 185 c.p.

Mi pare perciò che la decisione non si presti alle considerazioni che Paolo Cendon e Patrizia Ziviz vi hanno dedicato, come se invece la Corte avesse affrontato la questione dei rapporti tra 2059 e tutela costituzionale dei diritti della persona.

Non pare che da un passaggio nel quale la Consulta si limita a registrare come categoria di danno non patrimoniale quello spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale si possa sostenere che dalla sentenza 233/2003 esce sconfitta la posizione contraria a considerare il c.d. danno esistenziale una categoria autonoma nel lemmario della responsabilità civile in Italia.

Nella specie la Corte costituzionale non aveva da prendere posizione e si è guardata bene dal farlo, rinviando completamente all’orientamento assunto dalla Cassazione, che ritiene non necessaria e nemmeno utile, anzi fuorviante, la categoria}.

A meno che questa norma non si dia come tolta.

È il tentativo svolto a metà dalla Cassazione, quando afferma, nella sentenza 7283/2003, che La non superata presunzione di colpa altro non significa che essa agli effetti civili sussiste.

Quest’affermazione significa che in materia di colpa, che è qualificazione del fatto dalla legge pur disciplinato come reato, la norma civile va per suo conto.

Ma la Cassazione rimane a metà strada, concludendo in maniera implausibile: Sicché il fatto senz’altro corrisponde anche in tale ipotesi alla fattispecie astratta di reato.

La corrispondenza non c’è, ed i due modelli sono irriducibili l’uno all’altro.

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