L’azione principale generalmente proponibile dinanzi al giudice amministrativo consiste tradizionalmente nell’azione di impugnazione, la quale mira a ottenere una pronuncia di annullamento, in tutto o in parte, dell’atto amministrativo, e cioè l’eliminazione del provvedimento e dei suoi effetti, ai sensi degli art. 29 e 34 cpa.

Analoga azione è esercitata in occasione della contestazione degli effetti del silenzio assenso e dell’impugnazione dinanzi al Consiglio di Stato della sentenza pronunciata dal Tar.

Decidendo sull’azione di regolamento il giudice conosce della legittimità dell’atto: si tratta di una relazione biunivoca, in quanto egli può in linea di principio conoscerne solo previa impugnazione.

Dispone infatti l’art. 34 che, salvi due casi legati all’attivazione di pretese risarcitorie, ossia azione autonoma di risarcimento e l’ipotesi in cui l’annullamento del provvedimento impugnato non risulti più utile per il ricorrente ma sussista l’interesse ad accertarne l’illegittimità ai fini risarcitori, il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento.

L’azione di impugnazione è dunque l’azione originaria che consente di porre al G.A. la domanda per la cui soddisfazione egli è stato istituito.

Infatti, il processo amministrativo è stato concepito, all’atto della sua istituzione, come un processo finalizzato a consentire al cittadino di ottenere nei confronti della P.A. quanto non era possibile ottenere dal giudice ordinario. E poiché il GIUDICE ORDINARIO in forza della LAC non poteva annullare i provvedimenti amministrativi, potendoli semmai solo disapplicarli, al G.A. è stato riconosciuto proprio tale potere.

Come anticipato, con l’azione di impugnazione il cittadino ricorre nei confronti di un atto della pubblica autorità e ne chiede l’annullamento.

L’azione è proponibile entro un termine di decadenza piuttosto breve, la cui decorrenza, tuttavia, nell’ipotesi in cui i destinatari del provvedimento siano numerosi, risulta in qualche misura incerta e differenziata. Infatti, posta l’inesistenza di una regola generale di notificazione dei propri atti da parte della P.A. e che le regole di pubblicazione sono le più varie, la possibilità che si abbia una piena conoscenza del provvedimento impugnato, che determina il decorrere del termine di decadenza, è differenziata nel tempo per i vari destinatari.

Detto termine di 60 gg. è di carattere perentorio, posto nell’interesse:

  • del soggetto destinatario dell’atto impugnato: che ritiene di essere stato leso dall’atto e che, quindi, gode di indeterminato lasso di tempo per poter impugnare;
  • dell’amministrazione: posto che principio fondamentale, alla base di ogni ordinamento, è la certezza del diritto che vuole che l’atto, decorso un certo periodo di tempo, non sia più impugnabile. Se non vi fosse il termine di decadenza, infatti, l’atto vivrebbe in una situazione di incertezza e precarietà perché sarebbe sempre soggetto ad impugnazione.

L’azione di impugnazione può avere, tuttavia, degli effetti pesanti per l’amministrazione, anche quando il vizio denunciato sia modesto, relativo cioè ad un aspetto marginale dell’esercizio del potere: anche un vizio meramente formale potrebbe provocare l’annullamento del provvedimento magari emesso dopo un lungo e defaticante iter amministrativo e quindi con un consistente spreco di attività amministrativa.

Si pensi, ad es., alla comunicazione di avvio del procedimento amministrativo, che, se non inoltrata al destinatario potrebbe provocare l’annullamento del provvedimento finale.

Un simile effetto rappresenta uno strumento offerto al cittadino nei confronti del potere autoritativo della P.A. Non dimentichiamo però che a questo effetto così incisivo si accosta comunque un potere di autotutela sul provvedimento impugnato e quindi, il potere di provvedere, anche per tutta la durata del giudizio, evitando così un esito ad essa pregiudizievole.

Al peso dell’autorità della P.A. si contrappone la forza di reazione del cittadino; ciò da vita ad un processo ad oggetto rigido nel quale i contorni della contestazione sono fissati in modo immodificabile fin dall’inizio del processo.

Il ricorso definisce l’ambito della controversia ed individua le censure rispetto alle quali il giudice dovrà valutare la fondatezza della domanda.

La perentorietà del termine gioca un ruolo decisivo per impedire che, salvo casi eccezionali, sia possibile al ricorrente modificare strada facendo l’impostazione del processo mettendo in difficoltà, in tal modo, l’amministrazione resistente.

La perentorietà del termine e la rigidità dell’oggetto, tuttavia, sono state oggi notevolmente temperate da parte del legislatore. Il richiamo è, in particolare, alla l. 15/2005 che, riformando la legge 241/90, ha introdotto l’art. 21 octies in forza del quale il G.A. può non procedere all’annullamento del provvedimento impugnato, pur riconosciuto illegittimo, nel caso in cui emerga, in giudizio, che l’atto non avrebbe potuto essere comunque diverso da quello in concreto adottato.

In questo caso la contrapposizione tra autorità e libertà subisce una valutazione da parte del legislatore più sensibile alle esigenze dell’autorità, con possibile lesione del dettato costituzionale, ossia l’art. 113, secondo cui la tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.

Potrebbe, infatti, ritenersi che questo potere riconosciuto al G.A. escluda la possibilità di tutela in sede giurisdizionale in relazione a taluni vizi, pur riscontrati esistenti.

Il Gallo ritiene che il problema sia stato, in parte, risolto dal G.A. laddove ha limitato la rilevanza di violazioni meramente formali allorché non risulti dimostrato da parte del ricorrente che dette illegittimità lo avrebbero effettivamente pregiudicato. Tuttavia, questo meccanismo non sempre riesce a soddisfare le esigenze del cittadino e altresì ad individuare esattamente il contorno dell’attività amministrativa doverosa.

Una ipotesi è quella in cui oggetto dell’impugnazione sia il silenzio della P.A. Nel caso menzionato, difatti, dalla sentenza non emergerà il risultato finale cui il cittadino tendeva e cioè l’individuazione del provvedimento da emanare. Per il vero in questo caso si potrebbe addirittura dubitare di trovarsi in presenza di un’azione di impugnazione, posto che non esiste alcun provvedimento impugnabile, essendo considerato il silenzio come una finzione del diritto.

All’azione nei confronti del silenzio ha dedicato una specifica disciplina il nuovo Codice all’art. 117 andando oltre l’orientamento della giurisprudenza.

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