Nell’età carolingia la Chiesa ricevette dai sovrani del regno franco un deciso supporto, ma si trovò in pari tempo ad affrontare situazioni difficili, che ne misero più volte in pericolo la libertà e l’autonomia.

Alcune collezioni preesistenti di testi canonistici e ebbero allora larga diffusione: una di esse, la Dionysiana, fu nell’anno 774 direttamente inviata a Carlo Magno re dei Franchi dal papa Adriano I, ed in seguito venne arricchita con testi ricavati da una collezione più antica (Dionysio-Hadriana).

La tradizione dei testi disciplinari e penitenziali conservati nella grande collezione visigotica Hispana venne ripresa per integrare il quadro della normativa canonistica a disposizione delle chiese locali.

Queste ultime, tuttavia, diedero vita a consuetudini liturgiche e pastorali talvolta dissonanti rispetto a quelle di matrice romana.

Accanto alle compilazioni formate da testi risalenti alla tradizione ecclesiastica remota o prossima, i secoli IX e X conobbero però anche un diverso fenomeno, che è tra i più caratteristici di questa età: nacquero alcune compilazioni nelle quali, oltre a testi genuini, figuravano anche testi artefatti.

Talora ci si limitò ad attribuire all’autorità di un papa o di un concilio una proposizione tratta, ad esempio, dagli scritti di un padre della Chiesa, ovvero a modificare un testo della tradizione; altre volte si crearono invece norme nuove attribuendole ad autorità canoniche (papi o concili) che mai le avevano emesse. Le Decretali Pseudoisidoriane (847–852) appartengono a questa seconda categoria di compilazioni.

Gli autori intendevano

  • da un lato, con la loro opera, rimuovere una serie di vincoli imposti alla Chiesa dai poteri laici, tra i quali l’obbligo della milizia per il clero, l’accaparramento di beni ecclesiastica, la rimozione di vescovi e sacerdoti, l’ingerenza delle autorità secolari nei sinodi e nell’esercizio della giurisdizione canonica.
  • D’altro lato, in positivo, si voleva rendere più solida la gerarchia ecclesiastica riaffermando la potestà del papa in sede giurisdizionale e sottolineando con forza il ruolo del vescovo anche nei confronti del metropolita; si sospingeva il clero ad una più rigorosa disciplina di vita e di attività pastorale.

Non si trattò tanto di principi nuovi quanto piuttosto di una deliberata messa a punto di principi tradizionali.

La Chiesa intera versava allora in condizioni molto difficili perché le istituzioni feudali e signorili ne avevano intaccato sia la struttura che le funzioni.

Nelle chiese locali, i vescovi erano scelti e nominati di regola dai sovrani temporali, i quali non si limitavano a consegnare ai neoeletti le insegne episcopali (l’anello e il pastorale: anulum et baculum), ma talora addirittura affidavano loro, in prima persona, la cura d’anime (cura pastoralis).

I sovrani si riservavano inoltre il diritto di deporre i vescovi. Ciò avveniva senza che il principio tradizionale della nomina del vescovo da parte del clero e del popolo venisse mai formalmente smentito né tantomeno abrogato.

Ai livelli inferiori, la nomina dei sacerdoti ai singoli benefici ecclesiastici e alla reggenza delle singole pievi era largamente influenzata dai poteri signorili.

A ciò si aggiungeva il fenomeno caratteristico delle chiese private, istituite e gestite da laici anche con riguardo alla scelta dei pastori.

A sua volta, il papato era caduto nel secolo X nelle mani di poche famiglie dell’aristocrazia romana, attraverso vicende di profonda decadenza morale.

A tutti i livelli, in particolare al livello dell’episcopato, le nomine dei pastori erano determinate in larga misura dai rapporti di parentela e dall’offerta di denaro (o di altri beni) quale corrispettivo della nomina. Quest’ultimo aspetto – denominato simonia – era particolarmente grave, poiché implicava la mercificazione delle cariche spirituali e l’accesso alle funzioni sacerdotali e vescovili di uomini troppo spesso privi di vocazione pastorale, e perciò poco inclini alle rinunce conseguenti, a cominciare dal celibato. Larghissima era, in effetti, la diffusione del concubinato ecclesiastico (nicolaismo).

Il concubinato monogamico del clero si differenziava dal matrimonio quanto agli aspetti patrimoniali, perché privo della dote e degli assegni maritali, ma comportava la naturale conseguenza di creare aspettative per i figli, nonostante l’assenza di un loro formale diritto di successione: di qui le frequenti concessioni di benefici ecclesiastici a figli di sacerdoti concubinari.

L’ingerenza del potere laico nelle nomine ecclesiastiche era in larga misura determinata dalla commissione tra funzioni civili e funzioni religiose.

La nomina di vescovi alla carica comitale (vescovi-conti), l’esistenza di una feudalità ecclesiastica basata sui benefici e sulla fedeltà al pari di quella laica, la diffusione del fenomeno della signoria fondiaria anche per terre e uomini della Chiesa spiegano tale commissione, che rispondeva ad esigenze reali.

Le capacità di gestire le leve e gli strumenti del potere secolare non potevano non venire in considerazione allorché si trattava di scegliere gli uomini ai quali affidare tali leve; né stupisce che i sovrani volessero conferire i poteri pubblici a persone di loro fiducia. A sua volta, l’estensione delle pratiche simoniache trovava in tutto ciò un forte alimento.

La Chiesa era per così dire interna all’Impero e poteva semplicemente rivendicare una serie di franchigie nei confronti dei potere sovrano.

Nella Chiesa non erano mancate voci dissonanti rispetto a questa realtà di fatto e di diritto.

Ancora in età carolingia, un grande pontefice, Nicolò 1 (857-858), aveva affermato l’indipendenza del papato rispetto all’impero e la supremazia di Roma rispetto alle Chiese locali; egli aveva inoltre formulato limpidamente, nella lettera ai Bulgari, alcuni principi a tutela della persona umana.

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