Pensando all’umanità bisogna ricordare che la guerra è un problema comune e non di un’estranea comunità di malvagi che abitano in un’altra patria. Per poterne uscire Freud comincia il suo ragionamento parlando di vincoli di solidarietà nascenti da identificazioni: si potrà condividere un sentimento di appartenenza allargando i confini della comunità. Ma ogni senso di appartenenza può esser fatto includendo ma anche escludendo: l’eros quindi dovrà anche esser aggressivo. Ma questo discorso è possibile se c’è una continuità tra comportamenti privati e quelli dei governanti. Non è possibile la metanoia, cioè la razionalità weberiana, che vede in essa l’unica possibilità di trasformazione per Freud. L’umanità per trovare un accordo generale contro la guerra deve indignarsi di essa: in quanto la guerra è aberrante. Se ci indigniamo saremo pacifisti. Non il pacifista militante einsteiniano ma un pacifista divenuto tale da considerazioni estetiche arrivategli da interiorizzazione di modelli di civiltà.

Il messaggio pacifista di Freud è solo uno dei tanti che si aprono in un ventesimo secolo sconvolto da troppe guerre: due modelli diversi offrono un messaggio pacifista debole e disarmante che non oppone bellicamente le ragioni della pace bensì scommette sulla pace senza imperativi ma con l’esemplarità silenziosa dei gesti, ossia si assiste a una fiducia della pace). Il primo è gandhiano che assume i rischi della non violenza in un mondo violento, scommettendo che il codice della violenza non sia l’unico possibile. Smette quindi di ricorrere Gandhi alla violenza ponendosi disarmato e a capo scoperto praticando silenziosamente pacifismo e comando della pace. Il secondo modello è di Canetti che ricostruisce un meccanismo d’inganno della violenza dei parlamenti moderni.

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