Con la sua distinzione tra libertà economica e libertà politica, con la sua enfasi sul partito politico e sulla proporzionale, Kelsen prende le distanze da Schumpeter. La sua convinzione profonda è che “la democrazia moderna vivrà soltanto se il parlamentarismo si rivelerà uno strumento capace di risolvere le questioni sociale del nostro tempo”.

Il fenomeno della burocratizzazione non è in contrasto con la democrazia ma è una conseguenza del tentativo di accorciare la distanza tra società e politica. Kelsen: “democrazia significa identità di governanti e governati”. La libertà, l’autodeterminazione, si scontrano con “la ineluttabile necessità della divisione del lavoro, della differenziazione sociale”.

Teorico della rappresentanza non della governabilità, della integrazione politica non della gara competitiva, della coalizione dei partiti non del governo del leader, Kelsen delinea un liberalismo aperto ai problemi della società di massa. Kelsen ritiene che la democrazia sia collegata a istanze di partecipazione e persino a forme di governo pubblico del privato. Kelsen fissa una concezione mediana di democrazia, alternativa sia al liberalismo che al socialismo.

Dalla accezione liberale di libertà intesa come libertà dell’individuo dal dominio dello stato egli passa alla nozione democratica di partecipazione dell’individuo al potere dello stato. Kelsen non nega la rilevanza del leader. Il problema è come si crea il capo. La democrazia è procedure. In quanto metodo politico per giungere a decisioni la democrazia non è unita in un legame indissolubile con il capitalismo. Il lavoro di Kelsen lo conduce a rigettare ogni visione della democrazia come governo istituito mediante competizione.

L’errore di Schumpeter è di innalzare un criterio secondario, la concorrenza, a valore primario del sistema democratico. L’abolizione del sistema economico non comporta la fine della democrazia. Netto è l’accostamento kelseniano tra principio di maggioranza e l’opposizione degli interessi. La decisione politica non rispecchia “una verità superiore, assoluta, un valore assoluto superiore agli interessi dei gruppi, ma un compromesso”.

Secondo postulato destinato a cadere è la nozione di un popolo omogeneo; nella realtà il popolo è una entità divisa da contrasti nazionali, religiosi, economici. Il popolo puo’ aspirare a qualche unità solo attraverso l’intervento dell’ordinamento giuridico. Il popolo è quindi una mera unità normativa, è un dato giuridico. I partiti sono essenziali per garantire un effettivo influsso sulla gestione degli affari pubblici. I partiti non sono però la cancellazione dell’individualismo moderno perché essi nascono come associazioni libere di soggetti che organizzano “affinità politiche” non solo la “comunione degli interessi materiali”.

La competizione tra maggioranza e opposizione fornisce la “vera rappresentazione della società attuale, profondamente scissa in due classi”. L’intera procedura parlamentare mira al raggiungimento di una via di mezzo fra opposti interessi, di una risultante delle forze sociali antagonistiche. Oltre che partecipazione, la democrazia è anche controllo. Secondo Kelsen “la democrazia senza controllo è, a lungo andare, impossibile. Essa infatti, senza quell’auto limitazione che rappresenta il principio della legalità, si autodistrugge”.

La politica è anche decisione, dominio politico che mai si esaurisce. Ma è soprattutto metodo, controllo ossia tendenza equilibratrice che mira a “una spoliticizzazione delle funzioni dello stato”. Spicca il suo rifiuto di inquadrare la politica entro le magli della nozione di sovranità. L’idea di sovranità appare a Kelsen come ormai obsoleta, imbottita come è di un gran numero di pseudo-problemi. Sostiene Kelsen che “il potere non è alcuna sorta di sostanza o entità nascosta dietro l’ordinamento”. Stato e ordinamento giuridico sono la stessa cosa.

Scrive Kelsen che ogni stato è uno stato di diritto, anche la monarchia assoluta. Per Kelsen l’ideologia politica dello stato di diritto appare soltanto come un derivato e surrogato dell’ideologia teologico-religioso. L’enfasi su ciò che è comune ai diversi regimi politici oscura però le differenze riscontrabili nel reale funzionamento delle istituzioni. La critica di Kelsen ai vecchi approcci approda così alla ricerca di un sistema autoreferenziale unitario, privo al suo interno di contraddizioni.

Malgrado le aporie logiche che minano l’edificio kelseniano, il normativismo definisce tuttavia un terreno molto significato di riflessione tecnica sul diritto e anticipa alcuni elementi costituitivi delle teorie sistemiche. Scrive Kelsen: “il concetto di sovranità deve essere radicalmente rimosso. È questa la rivoluzione della coscienza culturale di cui abbiamo per prima cosa bisogno”.

Kelsen auspica un diritto internazionale che vincola non soltanto le unità statali ma anche gli individui. Egli propone perciò di invertire radicalmente il rapporto tra norma statale e ordinamento internazionale. Il primato dei valori universali, il rafforzamento del potere di intervento delle organizzazione internazionali, l’abbozzo di una comunità planetaria sono i corollari del diritto come risorsa principale nelle relazioni tra gli stati.

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