Il cattivo rendimento istituzionale dell’Italia liberale viene confermato dall’esperienza repubblicana. Non si può leggere l’esperienza italiana postunitaria come semplice deriva assembleare. Nello statuto non c’era un vero e proprio governo parlamentare. La controfirma ministeriale agli atti della corona di per se non era l’indizio del governo parlamentare: si trattava di una eredità della monarchia costituzionale.

Quello che ha retto le sorti dell’Italia dall’unità al regime fascista è stato un governo parlamentare molto atipico (pseudoparlamentare). Non si parlava di consiglio dei ministri, di presidente del consiglio, di fiducia parlamentare. La forma prescriveva ministri della corona. Era il re che nominava e revocava i titolari dei dicasteri.

Il senato era un potere centrale nell’ordinamento costituzionale. Esso serviva come organo di rallentamento delle pulsioni che potevano svilupparsi in seno alla camera bassa, eletta per altro a base censitaria. La sua composizione era rigorosamente classista.

Il ridimensionamento delle funzioni del senato, realizzatosi ben oltre ogni ritocco del dettato costituzionale, ha condotto alla affermazione dell’asse dominante camera dei deputati-governo. Sulla carta era sempre il re a nominare i senatori. In realtà, questa prerogativa si spostò nelle mani del governo.

L’articolo 67 dello statuto esigeva la responsabilità dei ministri e la contro firma ministeriale per i più rilevanti atti della monarchia. Attraverso l’istituto della contro firma poteva incunearsi una demarcazione tra il potere del governo e quello della corona. Più che accorgimenti normativi, ci sarebbe voluto un sistema politico nel quale il governo fosse espresso dal voto a un partito maggioritario.

La pretesa di definire non governi di partito ma governi disinteressati e al di sopra delle parti accompagnò gran parte del tragitto prefascista. Questa riluttanza a dare un partito al governo mantenne constante l’ingerenza monarchica nella confezione degli esecutivi.

Pretendendo di essere al governo al nome dell’intera nazione, e no di una parte maggioritaria di essa, si rendeva impossibile il decollo di un moderno regime parlamentare.

Con la consuetudine del voto di fiducia parlamentare, i poteri di intervento della corona si indebolirono progressivamente. La soluzione monastica, ruotante sul circuito fiduciario elettori, maggioranza parlamentare e governo, avrebbe potuto decollare solo in presenza di un sistema di partito. Il surrogato di un formato bipartitico veniva cercato nel rafforzamento della figura personale del presidente del consiglio.

Il rafforzamento del profilo formale e organizzativo-amministrativo della presidenza del consiglio se appare in primo luogo un prodotto del parlamentarismo, ne può anche essere la via d’uscita. La scarsa durata dei governi (dopo Cavour si susseguirono 11 governi in 9 anni), la loro debole collegialità, hanno scandito a lungo la vicenda costituzionale. Esisteva un condominio della responsabilità, per un verso parlamentare, per un altro verso regia.

Su queste basi di perenne incertezza, Sonnino ha potuto condurre la sua battaglia contro la fiducia parlamentare e per il ripristino delle prerogative regie. Il ritorno alla monarchia costituzionale poteva sembrare meno assurdo proprio perché il regime parlamentare era rimasto assai incerto dinanzi a governi che dovevano la loro comparsa più alla nomina del re che alla investitura elettorale e alla fiducia della camera.

La prassi dell’incarico multiplo, l’imposizione di uomini di fiducia in dicasteri chiave come gli esteri e la difesa, i tentativi di no lasciare che ricadesse sul primo ministro la effettiva responsabilità della conduzione della politica generale del governo, erano gli strumenti di cui il re si serviva per ostacolare il consolidamento di un coerente governo parlamentare.

Altre formidabili armi restavano in mano al re per intervenire nella dinamica istituzionale. Prima fra tutte l’anno dello scioglimento della camera. Persino le dimissioni di un governo colpito da un esplicito voto di sfiducia erano oggetto di una valutazione discrezionale da parte del re.

Depretis nel 1876 andò al voto anticipatamente, contro le resistenze della destra e del re, per verificare il consenso elettorale di cui godeva la sua rivoluzione parlamentare. Si affacciò allora una logica costituzionale nuova in quanto il potere di scioglimento cessava di essere una reggia prerogativa per diventare un esplicito atto del governo e del suo leader.

La rottura del 1876 no consolidò comunque lo scioglimento di maggioranza, secondo le direttive di un moderno governo parlamentare. Il motivo di ciò fu soprattutto l’assenza di un sistema di partito capace di inibire le impuntature del re. In un contesto in cui il re poteva persino prorogare le sessioni delle camere, i capisaldi del parlamentarismo diventavano del tutto aleatori.

Crispi, oltre che senza consiglio di ministri, governò a lungo senza parlamento. Nel dicembre 1894 egli sentenziò “in Italia non è possibile un governo parlamentare”. Lo stesso fece La Marmora. Uguale comportamento avrà Pelloux. Velleità autoritarie e scorciatoie decisioniste nascondevano però una realtà di estrema debolezza. Alla base di tutto c’era un governo senza partito maggioritario, forte di un gruppo parlamentare disciplinato e coeso.

Nessuno degli esponenti della classe politica liberale riuscì a liberarsi del trasformismo. La prassi del trasformismo per un verso era richiesta perché mancavano partiti, per un altro le alchimie parlamentari rendevano poco produttivo l’investimento in partito. Il vero anello mancante, per una evoluzione delle situazioni lungo i binari di un moderno parlamentarismo, era il sistema dei partiti.

Anche al legge elettorale maggioritaria a doppio turno contribuiva alla degenerazione della politica. Il meccanismo piemontese del 1848 contemplava collegi uninominali e un secondo turno previsto qualora nessuno dei candidati avesse riportato nella prima tornata più di un terzo dei voti. La legge elettorale maggioritaria a doppio turno favoriva un andamento clientelare e personalistico.

Nel 1882 si abbandonò il sistema maggioritario con collegi uninominali e si adottò lo scrutinio di vista. Nel 1870 votò il 45,5% degli aventi diritto, il minimo storico. Il fragile bipartitismo all’italiana già nel 1880 andò in frantumi. Un gruppo della sinistra si staccò per coalizzarsi con la destra. Esistevano così 3 poli: sinistra, destra e dissidenti di sinistra. Più che da partiti, il campo era occupato da gruppi politici aleatori e non organizzati. Si trattava di gruppo allo stato fluido, con sbiadite linee di demarcazione e flebile spirito di organizzazione.

Mancando due gruppi compatti destinati a occupare diversi ruoli nella vita parlamentare, non si istituzionalizzò la funzione di opposizione. L’opposizione non veniva percepita come una funzione essenziale per la qualità democratica di un sistema di governo risultò a lungo molto più comodo dare delle istruzioni particolareggiate al singolo deputato del collegio, che non prospettare una organizzazione di interessi comuni.

Il ritrovato improvvisato di liste plurinominali in 135 collegi nei quali si effettuava lo scrutinio maggioritario, non solo non spazzava via le pratica deteriori di scambio politico, ma ne introduceva delle nuove. Comparvero delle liste nelle quali figuravano candidati appartenenti ai più svariati orientamenti politici.

Il trasformismo giocava a suo modo un ruolo importante nel funzionamento del sistema. La trasformazione dei deputati assicurava “un minimo di stabilità istituendo le regole del gioco, cioè dando una struttura tendenzialmente clientelare anche alla coalizione di governo” (Farneti, 1971). I legami personalistici inibivano gli sviluppi di un moderno partito organizzato, ma esso era richiesto anche tecnicamente per reggere un confronto elettorale reso più difficile dall’allargamento del suffragio.

La corona era il simbolo dell’unita nazionale e questa verità non tollerava che si aprisse tra i deputati un dibattito critico con punti di vista differenti. Più che una funzioni di equilibrio e garanzia, il presidente svolgeva un ruolo politico rilevante, che lo rendeva uno strumento importante del governo nella programmazione dell’agenda legislativa.

Per regolamento, il presidente della camera poteva anche intervenire nei dibattiti. Crispi, in un certo senso, si richiamava alla lettera dello stratuo e riaffermava l’immagine di un monarca limitato solo dalla legge. Quando evocava il re sovrano che nomina i ministri e ne determina le attribuzioni, Crispi mostrava di rimpiangere uno stato di cose che la prassi aveva impunemente destrutturato.

Quella che traspariva in Crispi era una autentica dottrina della autolimitazione della camera. Tornare allo statuto significava solo restituire forza al re e annullare ogni spazio che la camera si era conquistata nel tempo consumando ogni sorta di abuso. Nel 1901 Zanardelli ridusse le prerogative della corona e attribuì al consiglio dei ministri il potere di nomina delle principali cariche dello stato. P

iù che una questione di adeguamenti formali, si incontrava un problema, di spoliticizzazione negli anni del trasformismo, e di iperpoliticizzazione dopo la comparsa di partiti di massa, che impediva l’affiorare di un governo parlamentare autorevole.

L’assenza di partiti si è rivelato il motivo della fragilità dell’impianto istituzionale e della instabilità politica. Tra voto di cittadini, formazione della rappresentanza parlamentare e allestimento del governo non si individuava un nesso trasparente.

In Italia c’erano gruppi che si formavano e si scomponevano senza alcuna ragione politica. Questa era la vera debolezza endemica della politica. Senza un partito in grado di esigere disciplina nel voto sui singoli provvedimenti, era impossibile gestire la centralità che il parlamento conquistava nei poteri pubblici.

La modernizzazione del parlamento arrivò solo dopo il 1919, con l’adozione della proporzionale e lòa comparsa di partiti di massa. Tra il 1920 e il 1922, la camera abolì l’arcaico sistema degli uffici e introdusse i gruppi parlamentari. La riforma giunse però troppo tardi.

Nel sistema prefascista la funzione dell’assemblea elettiva era venuta via via scemando a vantaggio del governo. Venne infranta la visione del governo come puro e semplice comitato esecutivo delle assemblee elettive, preposto alla attuazione pratica della legge votata dalle camere. Si affermò con forza il ruolo propulsivo del governo e la funzione essenziale dell’amministrazione.

Le scorciatoie decisioniste sono state prescelte per forzare la situazione, per accelerare i tempi della vita parlamentare in assenza di registi efficaci come i partiti. Il sistema di governo ha conosciuto diverse fasi di sviluppo.

Nella fase monarchico-costituzionale la corona e il senato di nomina regia erano i pilastri dell’ordinamento. Il governo era il monarca. Il re controllava gli apparati dello stato e si contrapponeva al parlamento. La camera elettiva figurava come rappresentante delle istanze della società civile che non incidevano nella decisine autentica. Il governo di emanazione regia era lo stato, il parlamento espresso dal voto era invece la società.

Nella fase della monarchia parlamentare, il parlamento subiva una progressiva incorporazione quale organo dello stato. Il parlamento come luogo della mediazione sociale rientrava nel disegno istituzionale giolittiano. Il secolo si è aperto con la più marcata istituzionalizzazione del parlamento nella geografia dei poteri dello stato. Non solo in Italia bisognava riconsiderare il ruolo del parlamento. Anche altrove un ripensamento era obbligato giacché il governo parlamentare è messo in questione in tutto il continente europeo.

Restava sullo sfondo il problema del consolidamento dell’organizzazione statale tramite le istituzioni del parlamento. Le elezioni del 1900 sono state diverse dalle altre, perché si ebbe uno scontro tra club di notabili, partiti di comitati e partiti di massa, fra forze organizzate a livello nazionale e forze prive di tale organizzazione.

I partiti della sinistra ottennero una buona affermazione portando a Montecitorio 110 deputati. Con il grande allargamento del diritto di voto, i tradizionali ambienti liberali avrebbero dovuto impostare in modo meno sporadico l’accordo ocn i cattolici.

Quello Gentiloni era un patto sostanzialmente trasformista perché, sotto la paura del socialismo, diede al liberalismo moderato una forza politica che non aveva in realtà. I candidati non erano controllati dai partiti ma si trovavano sotto la tutela dei prefetti e dei vescovi. Quello raccolto dai liberali di vario orientamento era nella sostanza un consenso drogato. In ben 228 collegi il candidato ministeriale passò con il voto prestato dai cattolici.

La guerra accelerò i ritmi dell’innovazione politica mandando in frantumi la possibilità di una autoriforma del sistema gestita dalla classe politica liberale. Nella gestione del primo conflitto mondiale il rapporto tra parlamento e governo subì una modificazione sostanziale.

In apparenza, il parlamento godeva di più vaste prerogative che nel passato. In realtà, la guerra fu dichiarata senza alcuna consultazione del parlamento. Durante il conflitto si verificarono ben 2 crisi di governo. Anche su questioni di normale amministrazione, il potere di intervento della camera risultò fortemente ridimensionato.

L’assenza di qualsiasi limite temporale per la conversione del decreto in legge consentì ogni tipo di stranezza istituzionale. Dopo la guerra, si ebbero modificazioni istituzionali notevoli, che andavano dalla legge del 1919 che ampliava la sfera della capacità giuridica della donna, alla decisione che cambiò il sistema elettorale di traduzione dei voti in seggi.

La proporzionale non era di per se la causa del dissesto istituzionale e della stessa frantumazione partitica anche se venne attuata in un momento assai delicato e poco propizio. La legge introduceva una rilevante novità perché “insieme con la lista deve essere presentato un modello di contrassegno stampato, anche figurato”. Il simbolo di partito faceva la prima comparsa nelle consultazioni politiche.

Oltre alla lista di partito, compariva il voto di preferenza per i candidati prescelti e anche la possibilità del voto aperto in favore di personalità appartenenti ad altri schieramenti. La partecipazione elettorale si mantenne piuttosto bassa: 56,6%. Eppure per la prima volta comparivano partiti a forte base ideologica: popolari e socialisti ottennero la maggioranza assoluta a Montecitorio.

Il paradosso italiano fu in fondo quello di conoscere i profondi guasti provocati dall’assenza di partiti in grado di cementare fedeltà solide e di assaporare i salassi non certo meno dolorosi di partiti “strani” che sviluppavano una lealtà sostitutiva rispetto a quella pubblica incarnata nelle situazioni. Dopo la proporzionale i partiti entrarono ufficialmente nell’architettura istituzionale.

Il fascismo è per Ferrero l’approdo di tensioni strutturali che hanno lesionato in profondità il sistema istituzionale senza che il parlamento diventasse il centro nevralgico della nuova politica. Il fascismo era solo un colpo di stato. Perciò Ferrero rifiuta di rintracciare una debolezza originaria delle istituzioni italiane nelle invadenza del parlamento.

Tra gli indiscutibili indizi della mancanza di un vero sistema parlamentare, Ferrero richiama la latitanza del partito politico. Il vero deficit del mondo liberale è stato quello di voler svolgere opera di mediazione senza organi di mediazione.

La crisi del parlamentarismo tradizionale dinanzi alla società di massa fu un fenomeno generale dell’Europa nei primi decenni del 900. Un partito liberale si presentò sulla scena solo nell’ottobre 1922: 20 giorni prima della marcia su Roma, quando ormai era troppo tardi.

Nel tumultuoso autunno del 1922, il re non solo rifiutò di firmare il decreto del governo che proclamava lo stato d’assedio ma, senza alcuna consultazione con le forze politiche, come pure voleva la prassi parlamentare, ricorse a un immotivato conferimento dell’incarico a Mussolini. La nomina del leader fascista parve giustificata più dal rumore della piazza che non dai numeri parlamentari.

Eppure, in una situazione fluida ma non certo di emergenza, il vecchio mondo liberale e monarchico preferì scommettere sulla cura fascista somministrata attraverso forti dosi di illegalità. Mussolini non chiese solo la fiducia a un governo normale ma volle anche i pieni poteri per la durata di oltre un anno. Nella crisi dello stato liberale ha pesato certo l’estrema frantumazione del giovane sistema dei partiti.

Però la frantumazione in quanto tale non era imputabile alla proporzionale adottata nel 1919. la frantumazione era un dato preesistente alla proporzionale. Il primo Mussolini fu un governo di coalizione. In parte, continuava la vecchia Italia trasformista con governi a conduzione personalistica.

In più, c’era il piglio autoritario che diveniva sempre più marcato. Per decreto venne ridimensionata la libertà di stampa, istituito il tribunale speciale per reati di opinione. Il parlamento era spossessato di ogni eventuale opera di controllo politico e poteva svolgere una funzione assai sbiadita di sindacato sostanziale giacché il termine previsto per la conversione in legge dei decreti adottati era fissato a due anni.

Sulla carta, il re nominava e revocava ministri proposti dal capo del governo. Nella sostanza, si volatilizzava del tutto ogni rapporto fiduciario con la camera. Nessuna legge poteva essere presentata in parlamento senza il preventivo consenso del capo del governo.

Articolo 280 del codice penale: “chiunque attenta alla vita, all’incolumità o alla libertà personale del capo del governo è punito con la morte”. Con questa pena esemplare, si intendeva rimarcare il carattere sacrale del capo del governo, che si avvicinava alla stessa del monarca. Il fascismo procedette con speditezza verso lo smantellamento dello stato liberale e dei suoi spazi di pluralismo.

Con l’estremo potenziamento del ruolo direttivo del capo, il fascismo si inseriva lungo una direttrice di marcia che dal 1900 al 1940 vedeva la costante ascesa della figura del presidente del consiglio. La figura del capo del governo conobbe una spiccata visibilità e incremento di potere dopo il 1926, quando divenire molto più sbiadite le preoccupazioni cosmetiche o di rassicurazione.

Il capo del governo non era più dello stesso rango dei ministri. Cessava di essere un primo tra pari, e traeva la sua investitura solo dalla corona e non aveva più alcun rapporto di responsabilità con il parlamento. La tendenziale identificazione e fusione di partito e stato perseguita attraverso la costituzionalizzazione del gran consiglio assicurava sulla carta una significativa istituzionalizzazione del regime.

Il re, ma anche il partito, in questa fase, erano più deboli, rispetto al capo. Il voto del gran consiglio del fascismo del 25 luglio del 1943 fornì al sovrano un appiglio formale per allontanare Mussolini. Con un decreto legge del re, si dichiarò finita la XXX legislatura. Si chiuse così la stagione della camera dei fasci e delle corporazioni.

Nella carta del 1948 i partiti sono figure della rappresentanza più che maschere della governabilità del sistema. Il presidente del consiglio più che premier è stato a lungo un maestro dell’arte di mediazione. Più che le virtù sospette del decisionismo, doveva saper giostrare in una situazione di tensione permanente.

Sul piano della mera forma, la costituzione ha delineato una prospettiva parlamentare sui generis in quanto sono stati introdotti organi di contenimento della possibile deriva assembleare: il presidente della repubblica, la corte costituzionale, il referendum, le regioni.

Il presidente del consiglio è dipinto come figura preminente di direzione destinata a prevalere sul consiglio dei ministri. I ministri godono della luce riflessa del rapporto fiduciario imperniato principalmente sul presidente del consiglio che designa i diversi titolari dei dicasteri. Dal presidente del consiglio, sulla carta potenziale premier, la responsabilità politica e l’indirizzo amministrativo si sono spostate al consiglio dei ministri, come sede di composizione di punti di vista molteplici che abitano in una coalizione eterogenea di partiti.

La malattia del sistema di governo non è connessa al rapporto legislativo/esecutivo ma al rapporto estremamente conflittuale tra la logica della leadership e la logica della coalizione. Le forme di governo sono profondamente intrecciare con il carattere assunto dal sistema dei partiti. Il ruolo dei partiti non è una patologia del sistema in quanto non si conosce forma di governo capace di funzionare senza di essi. Grazie al partito politico viene meno l’individualismo che caratterizzava la vita parlamentare.

La partitocrazia si è rivelata un antidoto rispetto all’ingovernabilità estrema dei regimi assembleari. Il limite congenito dell’esperienza italiana non è stato quello di avere ospitato i partiti al centro della vita istituzionale, ma di averne avuto troppi al governo e senza capacità di autolimitazione. Nessuna coalizione ha mai pensato di presentarsi come coalizione compatta davanti al corpo elettorale per ricevere un mandato di governo. Ciascun partito ha sempre corso da solo.

La mediazione che il presidente del consiglio deve sempre svolgere per restare in carica indica una concreta necessità di limare i punti di vista contrastanti esistenti tra le forze che col loro voto sostengono il governo.

Senza la mediazione tutto salterebbe in aria. I vari raggruppamenti solo dopo il voto, nel chiuso dell’aula, nei vertici di maggioranza, decidevano i contenuti reali delle decisioni. Il voto non decideva i problemi ma serviva per designare chi avrebbe dovuto decidere.

Questo elemento di per se dinamico della coalizione mette in luce come sia proibitivo fissare in una formula unitaria la logica della forma di governo repubblicana. L’evoluzione del sistema di governo è apparsa legata alla capacità di gestire il rapporto di tensione tra due contrastanti logiche: quella della leadership e quella della colazione.

Il premier di un governo di coalizione ha nella mediazione un ineliminabile strumento di azione. Il governo è apparso come un organo complesso, un sistema entro il quale il presidente del consiglio è ritenuto responsabile dell’unità di indirizzo del governo senza tuttavia poter esercitare un completo controllo su membri designati da partiti diversi. In ogni governo parlamentare il partito svolge una funzione centrale.

Ma questa presenza di partito genera problemi quando l’istituzione governo non riesce a prendere quota, bloccato da veti, logiche spartitorie, scambi occulti. L’elasticità della forma di governo ha avviato una decostituzionalizzazione del sistema politico con il rischio di far precipitare il confronto politico in un clima di generale insicurezza.

Quando De Gasperi è salito al governo, dopo il successo del 1948, era il leader di un partito che disponeva della maggioranza assoluta. Il governo è apparso allora più forte del partito solo perché a guidarlo era proprio il leader del partito.

Questo era il segreto della premiership di De Gasperi. Dopo le elezioni del 1948, De Gasperi è posto di fatto nella condizione di governare anche a prescindere dalle sue personali doti di leadership e dalla disponibilità alla mediazione. Entrambe queste risorse non gli saranno infatti sufficienti dopo il 1953, quando i numeri parleranno in maniera assai diversa agli occhi dei partiti minori.

La coalizione imporrà la sua logica specifica: la mediazione. La prima legislatura repubblicana è stata quella che più di ogni altra si è avvicinata ai moduli di funzionamento di un sistema di party-governement di stampo europeo. Sul piano dei comportamenti parlamentari, si è registrata una volontà da parte del premier di non concedere nulla all’opposizione anche sulle grandi questioni.

La colazione a partito dominante si è affermata in Italia dopo la perdita da parte della DC della maggioranza assoluta e ha ricompresso diverse formule di governo. Il tratto saliente di questa pratica di governo è consista in un restringimento dell’area della legittimità, occupata solo da partiti ritenuti pro-sistema.

Più la preclusione ideologica diventava appariscente e più brillava la luce degli alleati minori. La DC era artefice e vittima predestinata della pregiudiziale anticomunista. Il primo a fare le spese di questa situazione è stato proprio De Gasperi, che dovette ridimensionare la sua premiership e assumere ruoli più arbitrali. Dopo De Gasperi ci fu un altro politico che era al tempo stesso leader della DC e presidente del consiglio: Fanfani.

La DC divenne un partito a 3 teste: segretario politico, presidente del consiglio, capo dello stato. Farle convivere non sempre è stato agevole. La DC conobbe al suo interno una profonda mutazione destinata a incidere molto nella vita delle istituzioni. L’affermarsi di un partito diviso in correnti, ciascuna della quale trovava la sua ragione d’essere nella indicazione dell’alleato esterno privilegiato, bloccò ogni possibile evoluzione verso un party-government di stampo occidentale.

La DC divenne un partito a sovranità limitata senza più la coincidenza tra leadership di partito e leadership di governo. La definizione della leadership democristiana determinò subito una evidente diarchia tra segretario del partito che restava più tempo in carica, e presidente del consiglio che era una figura transeunte. Proprio questa scissione ha costituito un ostacolo all’evoluzione del sistema politico lungo un sentiero di democrazia governante.

Oltre al conflitto tra area di governo e opposizione, acquistava una sempre più accentuata rilevanza la conflittualità tra partiti alleati che ambivano a quote superiori di potere nella spartizione delle spoglie. I partiti risultavano più forti del governo perché al governo non c’era un partito maggioritario.

Negli anni 60, con l’entrata dei socialisti al governo e con l’attenuazione della pregiudiziale anticomunista, si è affermata una pratica del parlamento come veicolo del consolidamento democratico. All’opposizione veniva data l’opportunità do vedere nelle istituzioni parlamentari un luogo di integrazione insostituibile. Ogni decisione aveva bisogno di un surplus di consenso. Il governo allargato surrogava il governo debole.

Nel tempo il parlamento è però diventato una cassa di risonanza di conflittualità sociali e politiche che penetravano nel legislativo grazie al sovraccarico dei poteri dei soggetti del pluralismo. Il parlamento ha funzionato come un vero e proprio organo amministrativo che ha privilegiato la legge provvedimento, che tutelava interessi molto particolari o risolveva situazioni di emergenza, rispetto alla legislazione generale intesa come grande direttiva politica di durata pluriennale.

La centralità del parlamento è così diventata l’occasione per l’affermarsi di una metamorfosi corporativa della rappresentanza. Invece di un forte governo di partito si aveva un debole governo dei partiti. Più che un presidente attivista si aveva un presidente imbrigliato nella rete delle complesse relazioni tra partiti che si trovavano nella difficile situazione di essere alleati ma anche fortemente competitivi.

Si sono affermate, in un quadro sostanzialmente neotrasformista, convenzioni che non riconoscono più automatismo tra premiership di governo e appartenenza al partito di maggioranza relativa. Il parlamento veniva emarginato non certo in nome di una improbabile riesumazione della separazione dei poteri, ma in quanto luogo in cui i numeri costringevano a tener conto dell’opposizione.

Con l’indebolimento dei partiti si è affievolito ulteriormente il già debole principio della responsabilità politica che dovrebbe scandire l’azione di governo. Due distinte logiche sembravano emergere. Attraverso il rapporto privilegiato con il Quirinale o con la svolta decisionista, si ampliava lo spettro dei poteri del presidente del consiglio come capo di governo a tutti gli effetti.

Attraverso la costituzione del consiglio di gabinetto (1983), si organizzava un sistema di partito in miniatura, anche dentro il governo. Tendenza monocratica e momento collegiale si facevano avanti confusamente. La partitocrazia era questo tentativo di spostare l’asse di funzionamento del sistema dai partiti in parlamento ai partiti nel governo. I dissensi interni alla coalizione di governo non venivano ovattati, ma venivano amplificati all’esterno.

L’opinione pubblica diventava il destinatario di dissapori che albergavano nel governo e che trovavano il modo di filtrare fuori dal palazzo. Ciò si ripercuoteva in termini negativi sull’efficacia dell’azione di governo. Il conflitto nella maggioranza veniva sbandierato all’opinione pubblica con grande disinvoltura. Il germe istituzionale della partitocrazia risiedeva proprio qui.

La quarta figura del governo è stata quella consensuale che però ha assegnato ai partiti della maggioranza in parlamento una collocazione ineguale in rapporto alla loro presenza al governo. L’area del governo poggiava su un consenso parlamentare vicino al 90%. Non funzionava più una demarcazione maggioranza opposizione.

Continuava una cultura, dai tratti anacronistici, che reclamava la centralità del parlamento e mancava ogni percezione di accorgimenti istituzionali necessari per avviare una democrazia dell’alternanza. Il sistema brillava per la sua propensione a ricorrere a emendamenti, a correttivi. Sul piano istituzionale, venivano escogitati espedienti per reinserire nel gioco politico forze ufficialmente escluse.

La quinta figura del governo ha assunto le vesti di esecutivi tecnici o meglio del presidente. A struttura formale invariata, negli anni 90, si è accresciuto notevolmente il ruolo storico-politico del presidente. Il presidente della repubblica è stato potenziato nelle sue prerogative, che formalmente sono comunque tutt’altro che trascurabili. Da cauto notaio che assiste i governo senza interferire nelle loro dinamiche, egli si è atteggiato ad abile regista delle crisi.

Nel corso degli anni 50 e dei primi anni 60, l’esaurimento del centrismo diede luogo a governi di minoranza e contestualmente a un incremento del potere di iniziativa spettante al presidente della repubblica. Con Gronchi si ebbe un presidente che interveniva nell’arena politica con un suo progetto politico.

Nel 1964 subì una chiara impennata la presa della soluzione presidenzialista alla francese. Era evidente lo sconfinamento del capo dello stato che fece pressioni sulla DC per sollecitare la crisi di governo dell’estate 1964, incontrò i vertici militari e coltivò un progetto per la situazione di emergenza.

La sesta figura di governo è stata quella dell’investitura elettorale del premier e della sua maggioranza. Nel 1984 si è entrati nella seconda fase del maggioritario. È emersa una tendenza verso la parlamentarizzazione di tutti i partiti. I 7 mesi di gestione del governo da parte delle destre nel 1994 sono stati sufficienti per rilevare la capacità evocativa di un cattivo inizio della politica italiana.

Per Berlusconi l’etica del maggioritario suppone un leader investito direttamente dagli elettori che rende più flebili le prerogative del capo dello stato e priva il parlamento di ogni velleità di sorreggere governi diversi da quelli emersi con il voto.

La presenza di coalizioni vittoriose nelle consultazioni del 1996 e del 2001 ha però aperto una condizione politica e istituzionale diversa dal passato, quando i partiti in parlamento erano investiti di un mandato senza vincolo e ricorrevano a contrattazioni, staffette, verifiche. Il rapporto tra il governo e gli elettori è apparso più trasparente e meno mediato.

Nel vuoto normativo è cresciuto ora il ruolo dei partiti, ora la funzione arbitrale di indirizzo del presidente della repubblica. Il governo più che una forma si è configurato come un rapporto, il risultato di un complesso equilibrio di forze politiche e istituzionali.

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