I Trattati non contengono un’elencazione delle fonti del diritto (o, se si vuole, dell’ordinamento) comunitario. L’art. 249 descrive l’attività normativa delle Comunità ma si astiene dal qualificarla e l’importantissimo art. 234 (ex art. 177) parla di «atti compiuti dalle istituzioni della Comunità e della BCE» (la Convenzione/Costituzione mantiene la categoria degli Atti giuridici dell’Unione, ma introduce la “legge europea”, atto legislativo di portata generale e la “legge quadre europea” corrispondente alle direttive).
La cosa non deve stupire dal momento che la nozione dell’ordinamento comunitario è venuta affermandosi in un momento successivo a quello dell’elaborazione e della prima applicazione dei trattati. A quel tempo, il termine di riferimento era costituito piuttosto dalla categoria, a sua volta abbastanza recente, degli «atti delle organizzazioni internazionali», finalizzata a teorizzare il potere legislativo degli enti di cooperazione internazionale il quale peraltro raramente dà luogo ad effetti al di fuori degli interna corporis dell’ente.
La prima Comunità europea (la CECA) si è presentata con l’aspirazione a porsi come una struttura amministrativa integrata di livello sopranazionale (nel definirne il modello fu determinante l’influenza della dottrina giuridica francese, nella quale la distinzione tra il potere legislativo ed il potere regolamentare è meno netta che in Italia o in Germania, gli altri due Stati importanti nella fase iniziale della vita della Comunità ). Anche questo ha contribuito a distogliere l’attenzione dalla nozione di fonte del diritto, che nei paesi dell’Europa continentale ha il proprio centro logico nella categoria della legge, intesa come espressione del potere legislativo ed emanazione della volontà popolare.
Fu soltanto dopo che si affermò nella giurisprudenza della Corte comunitaria – ma anche in quella delle supreme istituzioni giudiziarie nazionali (come la nostra Corte costituzionale: v. sentenza S. Michele,) – la concezione autonoma dell’ordinamento comunitario, che venne avvertita l’esigenza di definirne le fonti. Tanto più che l’applicabilità diretta dei regolamenti conferiva al sistema comunitario la disponibilità di un atto legislativo di portata generale facilmente assimilabile alla fonte primaria della legislazione nazionale: la legge.
Seguendo questa concezione, ai Trattati istitutivi viene attribuito il ruolo di fonte superprimaria, analogo a quello della costituzione nell’ordinamento italiano.
Nel linguaggio corrente della Comunità , il regolamento può invece essere considerato fonte del diritto comunitario «derivato» o «secondario» rispetto al Trattato che è la fonte di primo grado del sistema comunitario.
Peraltro, l’ordinamento comunitario, come diremo più avanti, non si fonda su di un potere originario che si ponga come autorità creatrice della norma base (Kelsen) di esso: è un ordinamento che esiste entro gli Stati membri e grazie agli Stati membri, il quale si applica nel territorio degli Stati membri ed ha gli stessi destinatari delle norme da questi emanate.
Le sue fonti devono quindi essere, nello stesso tempo, fonti del diritto degli Stati membri: fonti, in particolare, del diritto statale italiano.
L’esigenza di fare un posto alle fonti comunitarie nell’ordinamento italiano – sia pure come fonti fatto – appare dunque assai fondata, e ciò porta con sé l’ulteriore esigenza di verificare l’efficienza di queste fonti nel quadro complessivo delle fonti italiane.
Questo fenomeno di coesistenza può dar luogo ad antinomie, cioè a discordanti valutazioni degli stessi fatti. Per risolverli, come vedremo, si può anche far ricorso agli stessi criteri utilizzati nell’ambito di un singolo ordinamento: quello cronologico (lex posterior derogat priori) e quello di specialità (lex specialis derogat generali) .