Sconfitta la lega latina, Roma iniziò ad intraprendere una politica d’espansione oltre i confini del Lazio , allargando sempre più la sua sfera d’influenza e la sua concreta supremazia tanto da riuscire ad imporre il proprio governo in diverse zone d’Italia. Furono rari i casi in cui le comunità soggiogate da Roma furono private interamente delle loro terre, come era accaduto a Veio.

In molti casi, infatti, solo una parte del territorio veniva confiscato e annesso all’ager publicus. Secondo le circostanze, la terra era distribuita in piena proprietà a cittadini romani o restava nella condizione di ager pubblico, amministrato dal Senato che ne decideva la forma di utilizzazione. In genere, Roma consentiva che le terre incolte o le meno produttive fossero occupate a titolo gratuito da chi ne avesse interesse per sfruttarle.

Si parlava allora di ager occupatorius: in questo modo, chi occupava queste terre ne acquistava il pieno godimento, trasmissibile fra vivi e mortis causa ai propri successori, ed erano tutelati contro terzi che tentassero di ostacolare l’utilizzazione.

Un esempio di tutela era, ad esempio, l’uti possidetis, che proibiva di arrecare qualsiasi turbativa ai possessori. Spesso, a godere di queste possessioni, erano quasi esclusivamente i ceti egemoni:erano i patrizi e gli esponenti della nobilitas ad avere i mezzi e le occasioni per potersi impadronire delle terre dello stato, valorizzandole attraverso l’investimento di capitali.

Tuttavia, ben presto venne emanata una legge, la lex Licinia, secondo cui nessun pater familias non poteva possedere più di 500iugeri cioè ettari. In questo modo, grazie a questa lex, anche le elites plebee poterono accedere almeno alle terre conquistate dalla res publica, nei cui organi di governo cominciarono ad essere ammesse.

Naturalmente, il divieto posto in essere con la lex Licinia venne ben presto violato: pare che lo stesso Gaio Licinio Stolone cercò di frodare la legge da lui emanata, impossessandosi di ben 1000 iugeri di terra e cedendone la metà al figlio, che nell’occasione emancipò.

Per frenare le ripetute violazioni della legge, nel 298, gli edili iniziarono a commissionare multe a coloro che si fossero impossessati di più di 500 iugeri di terra. Problemi analoghi creava spesso lo sfruttamento di quella parte di terre pubbliche destinata al pascolo e che lo stato concedeva alla collettività , dietro il pagamento di un canone.

Naturalmente, anche i pascoli pubblici vennero sfruttati sempre più dai ricchi che possedevano aziende agricole, schiavi e armenti cospicui che facevano pascolare su quelle terre senza alcuna forma di limitazione.

Venne, per questo motivo emanata, la lex de modo agrorum che, oltre a rinnovare l’antico divieto di possedere più di 500 iugeri, stabilì anche che nessuno potesse far pascolare su terre pubbliche più di cento capi di bestiame grosso e 500 di minuto. Impose, inoltre, ai grandi possessori di ingaggiare persone libere per la sorveglianza. Dal IV secolo, inoltre, per sopperire alle crescenti esigenze finanziarie della repubblica, parte dell’agro pubblico venne venduto dai questori ai privati, su autorizzazione del senato o dei comizi, dietro pagamento di un prezzo immediato e di un canone periodico, detto vectigal.

Altre volte erano i censori a dare in concessione temporanea, anche per cento anni, delle porzioni di ager publicus, detto censorius, in genere ai publicani. Questo sistema era seguito per i terreni migliori, quelli più produttivi, per cui era possibile ottenere canoni più alti.

Analogo era il caso di quelle terre situate fuori Roma, concesse dalla Repubblica ai suoi creditori, per la restituzione di una delle tre rate del prestito pubblico contratto durante la seconda guerra punica, nonché quello di quelle terre concesso dal senato agli abitanti dei borghi situati lungo le vie pubbliche, in cambio di manutenzione delle strade.

Normalmente, in queste terre conquistate dalla repubblica, veniva applicata la logica delle tribù; tribù con cui venivano raggruppate le popolazioni. Nelle regioni già assimilate vennero fondate delle coloniae dette civium Romanorum perché i cittadini mantenevano la cittadinanza romana. Le colonie romane erano di piccole dimensioni e si caratterizzavano per una certa autonomia amministrativa, nonostante facessero parte dello Stato romano.

Inoltre, possedevano dei propri magistrati, un senato e delle assemblee proprie.

La fondazione di una colonia veniva decisa dal senato e resa effettiva con un plebiscito che fissava la località, il numero di coloni, le autorità che vi avrebbero governato. Di tutto questo si occupavano tre magistrati straordinari dotati di ampi poteri e nominati dai consoli. I coloni erano arruolati normalmente tra i volontari ed erano esenti dall’obbligo di prestare regolare servizio militare.

Presi gli auspici, si procedeva alla fonazione della nuova colonia. Veniva sacrificato, a titolo spirituale, un animale, generalmente un toro, e il magistrato fondatore aveva il compito di segnare i confini. Fatto ciò, secondo delle logiche ben precise, si procedeva alla suddivisione delle terre e dei lotti che venivano assegnati per sorteggio ai coloni che ne divenivano proprietari, tranne alcune che i magistrati lasciavano libere per poterle poi assegnare a persone da loro stessi scelte.

Le terre non assegnate restavano nella condizione di ager occupatorius mentre quelle che si trovavano oltre i limiti prefissati dal magistrato fondatore, vendute o locate ai privati secondo la logica dell’ager vectigalis.

Per motivi politici o di sicurezza, il processo di romanizzazione procedeva molto lentamente e il senato stesso si mostrò riluttante ad annettere comunità straniere, per non rompere gli equilibri politici appena creatisi.

Ai nuovi cittadini, vennero concessi soltanto i diritti civili ma non il diritto di voto e il diritto di candidarsi alle cariche pubbliche.

Il diritto di voto non venne garantito neanche a quei cittadini romani che i censori avevano espulso dalle tribù cui appartenevano, privandoli dei diritti politici. Le comunità ai cui abitanti era stata concessa la civitas sine suffragio erano dette municipia. Non identico per tutti i municipia fu il grado di autonomia interna lasciata da Roma, al momento delle annessioni. Normalmente, il municipio veniva costituito mediante una lex o mediante un foedus, un accordo internazionale stipulato fra Roma e la città interessata, politicamente egemonizzata e militarmente sconfitta.

Per quanto concerne l’organizzazione locale, molti municipia continuarono a reggersi secondo le loro statuizioni pubbliche e i propri ordinamenti; ad altri, invece, fu imposta l’osservanza del diritto romano. Molti conservarono le proprie magistrature mentre, in altri casi, furono introdotti anche magistrati di derivazione romana.

Le operazioni del censo, ad esempio, venivano affidate agli organi del municipium, che poi comunicavano a Roma il risultato.

Per quanto concerne, invece, la giurisdizione criminale, questa veniva affidata ai magistrati locali mentre la giurisdizione civile era di regola amministrata da delegati del pretore urbani. La circoscrizione cui era assegnato un praefectus o un collegio di prefetti era detta praefectura. Esse, in quanto distretti, comprendevano municipi e colonie e sicuramente frazioni dipendenti da municipi, agglomerati, ect..I poteri dei prefetti si estendevano oltre la iurisdictio a seconda dell’autonomia di cui godevano le comunità incluse nei distretti loro assegnati.

Dopo una serie di sanguinose battaglie, Roma riuscì anche a sottomere anche le popolazioni celtiche della pianura padana. Solo una piccola parte di questo territorio era integrata nello stato romano e governata direttamente dai magistrati della repubblica.

I centri amministrativi dello Stato, a parte Roma, si distinguevano in municipia, città un tempo indipendenti e poi annesse e colonie romane, nuove comunità fondate al fine di presiedere zone di particolare importanza strategica.

Fino alla guerra sociale, i confini romani non furono ampliati e il senato preferì amministrare in modo indiretto, mantenendo vive le alleanze e concludendone delle nuove con i nemici sconfitti. Tutti gli alleati erano obbligati a fornire a Roma contingenti di fanteria e di cavalleria o, ancora, navi ed equipaggi. Normalmente certi obblighi erano reciproci ma non potendo gli stati sottomessi intraprendere una politica estera, la reciprocità non portava a nessun vantaggio.

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