Nella selezione iniziale del Codice subito dopo la legge teodosiana del 438 si rinviene un editto di Marciano del 452 (CI 1, 1, 4). Proprio partendo dall’attenta valutazione di questo testo, Facondo (vescovo nel sec.VI della cittĂ di Ermiane) avrebbe identificato il legislaÂtore del 452 parlando di padre autentico dello stato e nel contempo vero figlio della chiesa. Marciano avrebbe rivelato queste sue esemplari caratteristiche nel predisporre a difesa del Credo ortodosso l’editto poi in CI 1, 1, 4. Secondo FaÂcondo, grazie alla moderazione del temperamento prudente, il sovrano avrebbe implicitamente riconosciuto l’ambito ed i limiti del proprio ‘ufficio’, egli non avrebbe preteso di prevaÂricare la gerarchia della chiesa ne di contrastarÂne le indicazioni in materia di fede, anzi, si sarebbe fatto fiÂnanche esecutore delle disposizioni del concilio (quello calcedonese); con la constitutio avrebbe manifestato di conoscere bene gli spazi di manovra de fide consentiti all‘imperiĂąm: si sarebbe ideologicamente sottordinato alle opiÂnioni del consiglio ecumenico, riconoscendo l’autoritĂ assoÂluta della chiesa e dei consacrati anche rispetto alla propria posizione di cristiano, non dissimile da quella di qualsiasi alÂtro suddito-fedele.
Col suo editto, Marciano avrebbe opportunamente mostrato di non voler usurpare ruolo e funzioni appartenenti ad altra dignitĂ arrogandosi compiti superiori persino alla dignitĂ imperiale. La defensio di Facondo (con la quale il vescovo difese i tre vescovi condannati da Giustiniano e da papa Virgilio) fornisce spessore significativo sia alla politica generale di Marciano riguardo alla normazione religiosa, sia al sinÂgolo provvedimento preso in esame.
La collocazione dell’editto marcianeo nel primo titolo del Codex, fra costituzioni teodosiane e leÂges di Giustiniano, conferì al documento un suo preciso significato ideologico. Va notato come il diritto imperiale marcianeo, pur quantitativamente poco rappresentato nelle raccolte di leggi successive[1], suscita attenzione proprio per la sensibilitĂ che rivela intorno alÂl’aspetto religioso della realtĂ presa di mira. Non è casuale che un terzo della sua produzione abbia affrontato temi ed argomenti di rigorosa impronta religiosa: dai sacrifiÂci e templi pagani ai privilegi riconosciuti e garantiti ai chieÂrici, dalle eresie a sfondo sociale ai casi di apostasia (tradimento), dai caÂnoni disciplinari d’origine conciliare alla difesa radicale, inÂcessante dell’ortodossia del Credo cattolico.
La legge in CI 1, 1, 4, pur formalmente riÂguardando i rapporti reciproci fra imperium e sacerdotium, avrebbe obbedito in contemporanea ad una ratio politica asÂsai concreta. Non a caso, proprio a metĂ del sec.V le relaÂzioni fra il sovrano ed il concilio sarebbero divenute la chiave di volta per comporre le difficoltĂ che si presentavano all’impero da parte della periferia del regno.
Alle istanze sociali, che giĂ per il passato erano state acÂcompagnate da vivacissime discussioni religiose, e che i prìnÂcipi avevano legislativamente tamponato in vario modo, si sarebbero affiancati forti contrasti regionali. In particolare a partire dal concilio calcedonese, le controversie dottrinali se da una lato avrebbero costituito il terreno privileÂgiato dello scontro fra i grandi patriarcati per il controllo della chiesa d’Oriente, dall’altro avrebbero rappresentato l’emergere di alÂcune tendenze politiche e culturali autonomistiche (rispetto al centralismo della corte di Costantinopoli). L’impero avrebbe invece istituzionalmente mirato a compattare gli interessi religiosi e quelli politici intorno al sovrano ed alla sua religio ortodossa. In questo quadro il legislatore intendeva contrastare la frattura che, sull’onda delle dispute intorno al Simbolo di fede, si andava aprendo fra il centro del regno, le province africane e quelle del vicinissimo oriente asiatico (in particolare per le forti spinte monastiche).
Va detto inoltre dell’intenso epistolario scambiaÂto negli anni 449-450 fra il vescovo di Roma, Leone, e la corte di Costantinopoli, e così pure fra questa e la sede imÂperiale ravennate; un epistolario volto soprattutto a sollecitaÂre Teodosio II a rivedere in prospettiva ortodossa, mediante la convocazione di un nuovo concilio ecumenico, le decisioni prese nel 449 durante l’ultimo sinodo efesino. La morte accidentale di Teodosio, e l’avvento del pio Marciano, avrebbero risolto una situazione di stallo, rendendo quasi superfluo il tanto auspicato concilio; quest’ultimo sarebbe stato comunque convocato da lì a poco in maniera congiunta da entrambi i sovrani: Marciano e Valentiniano III.
A Calcedonia, durante le sessioni del sinodo (8 ottoÂbre- 1° novembre 451), l’assemblea ecclesiastica avrebbe adottato una seÂrie di risoluzioni con le quali definire stabilmente una molteÂplicitĂ di problemi sia dal punto di viÂsta squisitamente dogmatico, sia sul piano, piĂą concreto e profano della organizzazione ecclesiastica e disciplinare (la deposizione del paÂtriarca Dioscoro, e la riabilitazione dei vescovi Teodoreto ed Iba, giĂ vittime del ‘latrocinium’). Condannando l’eresia ‘antiochena’ di Nestorio, e così pure quella ‘alessandrina’ di Eutiche, si sarebbe sciolta la questione della dottrina ortoÂdossa; essa sarebbe stata stabilmente fondata sulla unicitĂ della persona di CriÂsto e sulla duplicitĂ , viceversa, della sua natura: di fatto i Padri conciliari sarebbero intervenuti per risolvere il proÂblema piĂą scottante della chiesa cattolica, ossia «l’atteggiamento da tenersi nei confronti del monofisismo». A tal fine si sarebbe stabilito che il Logos incarnato constava di una sola diÂvina persona e che esisteva, nel contempo, in due nature, quella divina e quella umana.
Invece, proprio dalla definizione del Credo ortodosso calcedonese (che nelle intenzioni avrebbe dovuto placare gli animi dei catholici, esacerbati da troppe e troppo aspre controversie sul Simbolo) sarebbe nato un pericoloso scontro non solo per i rapporti fra le chiese delÂle due partes imperii ma anche per quelli tra le stesse chiese d’Oriente. Le risoluzioni dogmatiche trovarono infatti forti e ostinate resistenze da parte della periferia dell’impero. Tali resistenze sarebbero state legate non solo allo stretto dibattito teologico ed alla connessa polemica fra esponenti monofisiti ed ortodossi calcedonesi, ma pure ad alcune sensibili spinte provenienti da quei movimenti locali a dimensione regionalistica, pericolosi per la stessa integriÂtĂ materiale dell’impero. Questi movimenti apparivano al legislatore fortemente eversivi perchĂ© non riconoscevano la religio (calcedonese) del sovrano, anzi considerandola in larga parÂte persino eterodossa, contribuivano a rafforzare piĂą saldamente che per il passato la stessa opposizione politica. Strumentalizzati dal partito monofisita, essi avrebbero susciÂtato gravi e comprensibili preoccupazioni presso la corte coÂstantinopolitana.
[1] la produzione marcianea non ha infatti suscitato particolari interessi nelle indagini romanistiche, forse ance per le poche tracce normative lasciate.