Premessa.I rapporti tra equità e diritto positivo e diritto giurisprudenziale sono nei vari momenti storici molto diversi: a volte sono così compenetrati che è quasi impossibile distinguerli. Ius honorarium: sistema di norme che dal 367 viene introdotto dai magistrati romani per colmare l’”inadeguato”.

L’antitesi tra “diritto scritto” e equità si ravvisa nell’ultimo periodo della Repubblica, quando le strutture antiche del ius civile appaiono inadeguate per le esigenze del nuovo stato-città: l’equità diventa allora strumento di correzione/adeguamento del ius su 2 fronti diversi:

1) l’introduzione del processo formulare investe il magistrato giusdicente di una funzione eminentemente creatrice di dir, fondata sul suo imperium e quindi espressione del potere supremo della civitas. Il potere discrezionale del magistrato (che gli permette di correggere lo ius civile ma anche contrapporsi a quest’ultimo) viene concepito come fondato sull’aequitas (5 sentenze in latino. Pag 7). In questi casi di pag 7 si delinea l’antitesi tra diritto scritto (che si identifica con lo ius civile) ed aequitas (che si considera criterio ispiratore dell’attività del magistrato: diviene quindi un elemento di diritto positivo, perchè espressa nell’editto, che in un certo senso è fonte normativa).

2)Nello stesso periodo si assiste alla maturazione del metodo della giurisprudenza in senso scientifico, ponendosi allora le basi per la trasformazione del diritto romano in diritto prevalentemente giurisprudenziale. Cicero nel “de oratore” si lamentava che i giuristi come Catone e Bruto riferissero le loro risposte indicando espressamente persone/circostanze particolari e così facendo oscuravano il responso sul punto generale di diritto: ciò secondo Cicero era superabile se lo ius civile fosse stato raccolto in “certa genera” ossia in un sistema logico-razionale (latino p.9, in nota).

Ciò però non era sufficiente per permettere la costruzione di un diritto giurisprudenziale che nasceva dalla soluzione di casi concreti: il problema era rappresentato dalla distinzione dal punto di fatto da quello di diritto (per individuare il principio giuridico che potesse esser usato per risolvere casi simili, principio di diritto che però doveva esser “aperto alla valutazione” secondo il bonum et equum del caso concreto).

In questo senso tra i giuridici del periodo si nota una differenza di metodo che finisce col rispecchiare anche una diversa scelta tra diritto scritto ed equità: questa differenza d’impostazione emerge confrontando i 2 grandi caposcuola della giurisprudenza repubblicana, ossia Quinto Mucio Scevola e Servio Sulpicio Rufo. Il primo rese possibile pensare il ius astrattamente, aprendo la strada alla formulazione del responso come principio di diritto, isolato dagli elementi di fatto strettamente contingenti: nel suo “liber definitionum” egli da al responso la struttura del “casus-quaestio-responsum” e ciò permetterà la successiva semplificazione in “quaestio e responsum” (problema di diritto e soluzione).

Ora Mucio definisce i principi giuridici sulla falsariga delle XII tavole (per fornire un sistema di norme complete e definitive), Rufo invece si serve della stessa tecnica dell’astrazione per formulare soluzioni generalizzanti ma di struttura casistica, in quanto il principio giuridico formulato è connesso al caso concreto e può esser usato per gli altri solo con la valutazione critica del giureconsulto. Nella tradizione ciceroniana Scevola è il difensore del diritto scritto, Rufo è il giurista che determina l’aequitas (latino p.11, ma è una definizione di Rufo).

Nel “Brutus” infatti, Cicero antepone Rufo a Mucio, in quanto quest’ultimo si limitò ad avere l’usus dello ius civile (come altri giuristi dell’epoca), ma solo Sulpicio ebbe l’ars. L’idea del diritto come ars porta alla possibilità di superare la singola regula in un processo intimamente coerente.