Il modello processuale che ogni Stato decide di adottare allo scopo di amministrare correttamente la giustizia penale risulta condizionato dall’ esigenza di dover contemperare interessi contrapposti: da una parte, l’ interesse dello Stato alla repressione dei reati e, dall’ altro, l’ interesse del privato a non veder limitata la propria libertà personale.

Di conseguenza, per la realizzazione e per l’ adozione di un modello processuale è necessario porsi preliminarmente un quesito fondamentale: perché processare? A tale quesito le risposte ovviamente variano a seconda degli obiettivi che ogni Stato decide di perseguire: in questa prospettiva, si può, ad es., progettare un processo al solo fine di blindare l’ esistenza dello Stato ovvero allo scopo di applicare gli strumenti sanzionatori esistenti; si può, all’ inverso, progettare un processo allo scopo di assicurare garanzie di resistenza all’ imputato e di garantire, per questa via, l’ esatto accertamento della responsabilità penale del medesimo.

Ciò premesso, occorre adesso considerare che nel nostro Paese l’ impianto processuale penale fino al 1988 era di stile cd. inquisitorio; il cd. codice Rocco del 1930, fino ad allora ancora in vigore, prevedeva, infatti, il seguente procedimento: il pubblico ministero (dipendente dal Ministro della Giustizia e dotato di ampi poteri coercitivi) apriva il processo, avviando un’ istruzione sommaria (di tipo marcatamente inquisitorio) nei confronti dell’ accusato-imputato; in tale istruzione, egli poteva ricercare ed assumere prove, limitare la libertà personale dell’ imputato e decidere di rinviare a giudizio il medesimo (in alternativa, era il giudice istruttore ad aprire nei confronti dell’ accusato-imputato un’ istruzione formale).

In dibattimento, infine, il giudice utilizzava, ai fini della decisione da adottare, tutti i verbali degli atti raccolti nella precedente fase istruttoria (l’ imputato, quindi, pur godendo di alcune garanzie, non aveva alcun potere nella formazione delle prove).

Con l’ innovazione del 1988, con il codice Vassalli, il legislatore ha proposto, viceversa, un nuovo modello processuale, di stile cd. accusatorio; in virtù dei princìpi che caratterizzano questo modello, attualmente l’ organo dell’ accusa (il pubblico ministero), allo scopo di produrre in dibattimento le prove, è chiamato a raccoglierne, nella fase pre-processuale, gli elementi e le fonti, in quanto su di esso incombe l’ onere della prova, stante la presunzione di innocenza dell’ imputato (art. 27, 2° co. Cost.); l’ imputato, a sua volta, deve difendersi mediante la contestazione delle prove della sua innocenza e mediante la produzione di prove a discarico; il giudice, soggetto imparziale, partecipa, invece, al processo, controllando che questo si svolga nel rispetto della legge.

Il nuovo codice di procedura penale ha realizzato, in particolare, la separazione delle fasi processuali; il procedimento ordinario (cd. giudizio ordinario) si struttura, infatti, in tre fasi principali: indagini preliminari, udienza preliminare e dibattimento.

La fase delle indagini preliminari è quella diretta all’ assunzione di tutti gli elementi inerenti all’ esercizio dell’ azione penale; titolare del potere di indagine è il pubblico ministero, coadiuvato dalla polizia giudiziaria [in funzione di garanzia interviene in questa fase il giudice per le indagini preliminari (g.i.p.)].

Terminate le indagini preliminari, il pubblico ministero, qualora ritenga che gli elementi acquisiti non siano idonei a sostenere l’ accusa in giudizio, presenta al giudice per le indagini preliminari richiesta di archiviazione; in caso contrario, esercita l’ azione penale, presentando [al giudice dell’ udienza preliminare (g.u.p.)] richiesta di rinvio a giudizio (contenente la formulazione dell’ imputazione).

Nell’ udienza preliminare il giudice (denominato, appunto, dell’ udienza preliminare) valuta la fondatezza dell’ azione penale esercitata dal pubblico ministero: quindi, qualora ritenga che non vi siano elementi idonei a sostenere l’ accusa in giudizio, pronuncia sentenza (processuale) di non luogo a procedere (questa sentenza può anche essere revocata, in presenza di nuove fonti di prova); in caso contrario, il giudice emana il decreto che dispone il giudizio, fissando la data del successivo dibattimento.

Il dibattimento, infine, rappresenta la fase del processo, nella quale devono essere assunte le prove nel contraddittorio delle parti, alla presenza del giudice, terzo ed imparziale.

Lo schema appena delineato rappresenta il modello più completo affinché si possa giungere ad una sentenza processualmente giusta; tuttavia, ove le caratteristiche del caso concreto non rendano indispensabile il passaggio attraverso tutte le varie fasi della procedura ordinaria, il legislatore ha previsto dei riti alternativi: il giudizio direttissimo (nel quale manca sia la fase delle indagini preliminari che quella dell’ udienza preliminare), il giudizio immediato (nel quale manca l’ udienza preliminare), il giudizio abbreviato ed il patteggiamento (nei quali manca il dibattimento) ed il procedimento per decreto (nel quale manca sia l’ udienza preliminare che il dibattimento).

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