Fra le varie fonti sopra indicate, particolarmente problematica è stata l’identificazione dell’importanza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Una svolta si è avuta con il Trattato di Lisbona che all’articolo 6 dispone:“L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Essa aderisce, inoltre, alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.

Con questa disposizione il Trattato di Lisbona ha qualificato le norme della Convenzione europea come fonti diritto dell’Unione, contenenti principi generali che devono essere riconosciuti dagli Stati. I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione .

L’art. 52 prevede, infatti, che laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. Conseguentemente, tutti quei diritti previsti dalla C.e.d.u. che trovino un «corrispondente» all’interno della Carta devono essere intesi, adesso, come tutelati a livello europeo quali diritti sanciti da un vero e proprio Trattato dell’Unione.

Le clausole della Carta dei diritti fondamentali e della Convenzione europea non rappresentano più princìpi di diritto da ricavarsi in via interpretativa, ma diventano diritto positivo cogente, la cui violazione, da parte delle istituzioni comunitarie, determina l’invalidità dei relativi atti e, se del caso, la responsabilità dell’Unione mentre, da parte degli Stati, può determinare la procedura d’inadempimento dinanzi alla Corte di Giustizia.

Per quanto riguarda l’Italia, prima dell’adozione del Trattato di Lisbona la Corte Costituzionale aveva precisato che in caso di contrasto fra una norma interna e la Convenzione dei diritti dell’uomo, i giudici nazionali avrebbero dovuto rimettere la questione dinanzi alla Corte europea, senza tuttavia poter disapplicare automaticamente la norma interna (come avviene in caso di contrasto fra norma interna e norma comunitaria).

Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona la Corte Costituzionale si è mostrata recalcitrante a modificare il suo orientamento, nonostante la qualificazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo quale fonte del diritto comunitario.

Ad oggi, comunque, deve ritenersi l’obbligo in capo al singolo giudice interno di disapplicare qualsiasi norma o disciplina in contrasto con i diritti fondamentali in esse sanciti poiché costituenti princìpi generali di diritto comunitario, validi e cogenti erga omnes.

A proposito del potere del giudice interno di disapplicare le disposizioni in contrasto con il diritto dell’Unione, la Corte di Giustizia ha, di recente, affermato che «qualora il giudice italiano rinvenga la violazione delle disposizioni del Trattato, egli sarà tenuto a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione disapplicandole norme interne.

Deve rimanere fermo, pur nell’ottica della necessaria integrazione, che con riferimento ad un diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quanto già predisposto dall’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela medesima.

Sembra questa la filosofia adottata dalla Corte costituzionale nell’opporre i controlimiti innanzi alle pretese della Corte di Giustizia di disapplicazione di norme e principi fondamentali a livello interno.

Del resto, l’art. 53 della Convenzione stabilisce che l’interpretazione delle disposizioni C.e.d.u. non può implicare livelli di tutela inferiori a quelli assicurati dalle fonti nazionali.

In definitiva, se la Corte costituzionale non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della C.e.d.u. a quella data in occasione della sua applicazione al caso di specie dalla Corte di Strasburgo, però, è tenuta a valutare come ed in quale misura l’applicazione della Convenzione da parte della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano.

La norma convenzionale, nel momento in cui va ad integrare il co. 1 dell’art. 117 Cost. come norma interposta diviene oggetto di bilanciamento, secondo le ordinarie operazioni cui il giudice delle leggi è chiamato in tutti i giudizi di sua competenza. Operazioni volte non già all’affermazione della supremazia dell’ordinamento nazionale, ma alla integrazione delle tutele.

Ogni qualvolta si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice nazionale è vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di «ogni strumento ermeneutico a sua disposizione», ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale, senza trascurare l’ipotesi della c.d. questione pregiudiziale europea da prospettare alla Corte di Giustizia del Lussemburgo.

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