La Corte costituzionale (sent. n. 85 del 2008), incidendo sulla l. n. 46 del 2006, ha ripristinato la facoltà spettante al pubblico ministero e all’imputato di appellare non solo la sentenza di condanna ma anche quella di proscioglimento pronunciate dal tribunale e dalla corte di assise:

  • appello contro le sentenze di condanna: l’art. 593 co. 1 pone come regola generale l’appellabilità delle sentenze di condanna da parte del pubblico ministero e dell’imputato, a patto chiaramente che sussista l’interesse ad impugnare. Tale regola è affiancata da eccezioni in base alle quali alcune sentenze non possono essere sottoposte ad appello:
    • sono inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda (art. 593 co. 3), da intendersi come pena originaria;
    • sono inappellabili le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti, ma il pubblico ministero può proporre appello se non ha consentito il patteggiamento;
    • non si può proporre appello contro la sola misura di sicurezza quando la parte non ha impugnato agli effetti penali un altro capo della sentenza di condanna;
    • il solo pubblico ministero non può proporre appello contro la condanna pronunciata nel giudizio abbreviato, ma ha tale potere quando il giudice nella sentenza ha modificato il titolo di reato;
    • appello contro le sentenze di proscioglimento: il testo originario del codice del 1988 offriva una tutela insoddisfacente all’imputato prosciolto in primo grado se il pubblico ministero proponeva appello. Era tuttavia ritenuto inaccettabile che un’assoluzione, pronunciata in primo grado in seguito ad un ampio contraddittorio, potesse essere ribaltata da una condanna emessa in un giudizio privo di garanzie:
      • la l. n. 46 del 2006, accogliendo un’opzione che privilegiava la ragionevole durata del processo, aveva posto come regola generale la non appellabilità delle sentenze di proscioglimento salvo un caso eccezionale (art. 593 co. 2): l’appello, infatti, poteva essere proposto soltanto in presenza di una nuova prova decisiva emessa dopo la chiusura del giudizio di primo grado;
      • la sent. n. 26 del 2007 della Corte costituzionale, tuttavia, ha dichiarato illegittimo il divieto posto al pubblico ministero di presentare appello contro il proscioglimento dell’imputato. A giudizio della Corte, la norma censurata era in contrasto con il principio di parità delle parti nel processo penale (art. 111 co. 2 Cost.), poiché il divieto di appellare il proscioglimento provocava, secondo la Consulta, una disuguaglianza non sorretta da ragionevole giustificazione. Tale sperequazione non risultava attenuata dalla possibilità di appellare il proscioglimento in presenza di nuove prove decisive perché una simile possibilità presentava connotati di eccezionalità. La Corte, quindi, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della l. n. 46 del 2006, ha restituito al pubblico ministero il potere di proporre appello contro tutte le sentenze di proscioglimento pronunciate dal tribunale e dalla corte di assise. La singolarità sta nel fatto che la sentenza ha voluto ripristinare l’appello del pubblico ministero contro il proscioglimento, ma al tempo stesso ha ammesso che tale soluzione comporta qualche aspetto di insoddisfazione: la Corte, infatti, ha affermato che un proscioglimento in primo grado, fondato sul contraddittorio nella formazione della prova, può essere ribaltato da una condanna in secondo grado fondata su una prova prevalentemente scritta . Così facendo, la sentenza costituzionale ha contraddetto se stessa in quello che aveva affermato qualche pagina prima;
      • la declaratoria di parziale illegittimità dell’art. 593 co. 2 aveva lasciato sostanzialmente inalterato il divieto posto all’imputato di presentare appello contro le sentenze di proscioglimento. La situazione era tale che l’imputato non poteva lamentare errori di merito nei confronti di quelle sentenze di proscioglimento che avevano riconosciuto implicitamente la sua responsabilità penale (es. perdono giudiziale) o che avevano adottato formule non completamente liberatorie. Queste limitazioni sono state prese in considerazione dalla successiva sent. n. 85 del 2008, che le ha ritenute tali da provocare una disparità non giustificata e non ragionevole rispetto al pubblico ministero che nel frattempo aveva riottenuto la possibilità di impugnare ogni provvedimento. La Consulta, quindi, ripristinando la situazione anteriore alla riforma, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della l. n. 46 anche in questo suo aspetto.

Vi sono singoli casi nei quali la legge pone un espresso divieto di presentare appello contro sentenze di proscioglimento:

  • l’imputato non può proporre appello contro le sentenze di proscioglimento pronunciate nel giudizio abbreviato (art. 443 co. 1);
  • non è appellabile la sentenza predibattimentale di proscioglimento pronunciata in mancanza di un’opposizione del pubblico ministero e dell’imputato;
  • non si può impugnare separatamente l’applicazione di una misura di sicurezza quando la parte non propone un’impugnazione contro un altro capo penale della sentenza (art. 579);
  • impugnazione della parte civile: secondo quanto affermato dalla Corte di cassazione (Sezioni unite sent. n. 27614 del 2007), la parte civile può impugnare, agli effetti della responsabilità civile, sia la sentenza di condanna sia quella di proscioglimento.

Il codice, peraltro, tutela la parte civile contro gli effetti della dichiarazione di non doversi procedere per sopravvenuta amnistia o prescrizione. Ai sensi dell’art. 578, infatti, quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare estinto il reato, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili . Il danneggiato, quindi, con la sua impugnazione, può ottenere una condanna in sede di appello anche se, ai fini penali, la medesima corte dichiara non doversi procedere per prescrizione del reato.

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