Il principio ispirante il legislatore nel determinare le forme degli atti del processo, scegliendole con riguardo allo scopo obbiettivo dell’atto, è il cosiddetto “principio della congruità delle forme allo scopo”. Ora, c’è da dire che lo scopo obbiettivo supera (o addirittura si contrappone) alle personali intenzioni che concretamente possono aver indotto il soggetto a compiere l’atto. Ad esempio Tizio notifica un atto di citazione verso Caio, potrà augurarsi che Caio non ne venga a conoscenza o ne fraintenda la portata, così astenendosi dal difendersi, ma ciò non impedisce che lo scopo obbiettivo della notificazione sia quello di metter il convenuto nella condizione di conoscer l’atto di citazione e di svolger le sue difese. Quindi si può dire che gli atti del processo sono disciplinati dal legislatore con le forme più idonee a conseguire il loro scopo obbiettivo. Il principio non è codificato direttamente nel C.P.C., tuttavia si trova indiretta traccia in 121, nella regola detta della “libertà delle forme” per cui “gli atti del processo, per cui la legge non richiede forme determinate, possono esser compiuti nelle forme più idonee al raggiungimento del loro scopo”. Tuttavia è difficile che la legge non disciplini la forma di un atto, quindi la norma si pone in pratica come “chiusura del sistema”. Si ha poi il 131 che è una norma più dedicata ai provvedimenti, cioè gli atti decisori del giudice. In ambo gli art comunque la regola della libertà delle forme fa da sfondo alla regola della congruità delle forme allo scopo (identificandosi con quest’ultima).

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