Oggetto del dolo è il fatto tipico, quindi l’oggetto del dolo è costituito da tutti gli elementi obiettivi positivamente richiesti per l’integrazione delle singole figure di reato. Tale opinione trova un riscontro normativo nell’art. 47 che concorre a delineare la disciplina del dolo, confermando l’assunto che la rappresentazione e la volontà devono avere ad oggetto il fatto tipico.

Più precisamente il dolo deve abbracciare le diverse componenti in cui il fatto tipico può articolarsi: condotta, circostanze antecedenti o concomitanti all’azione tipizzata dalla norma incriminatrice, l’evento naturalistico.

Perché l’azione si a imputabile a titolo di dolo, occorre distinguere a seconda che si tratti di reati a forma vincolata o a forma libera; nell’ambito dei primi è necessario che coscienza e volontà abbiano ad oggetto le specifiche modalità di realizzazione del fatto tipizzare dalla fattispecie incriminatrice; nei secondi invece, posto che il legislatore attribuisce rilevanza penale a qualunque modalità di aggressione al bene protetto, il dolo deve normalmente accompagnare l’ultimo atto compiuto prima che il decorso causale sfugga alla capacità di domino personale dell’agente.

Per quanto attiene al nesso causale, basta che l’agente se ne prefiguri lo svolgimento nei tratti essenziali rilevanti ai fini della valutazione penalistica, per cui non è necessario che la corrispondenza tra decorso causale preveduto e decorso casale effettivo abbracci anche i dettagli secondari (es. se Tizio nel gettare Caio da un ponte vuole farlo annegare nel fiume sottostante, la responsabilità per omicidio permarrà anche se Caio muore battendo la testa su di un masso vicino la riva, trattandosi di una divergenza nel decorso causale prevedibile anche al momento dell’azione).

Le specifiche modalità di causazione assumono rilevanza, invece, nei casi in cui siano legislativamente predeterminati (es. nel dolo del reato di epidemia, art. 438, non può mancare la consapevolezza che questa venga cagionata proprio attraverso le specifiche modalità prefigurate dal legislatore, cioè mediante diffusione volontaria di germi patogeni).

Il dolo deve anche investire gli elementi normativi della fattispecie, cioè quegli elementi la cui determinazione presuppone il rinvio ad una norma diversa da quella incriminatrice che vien e in questione (es. il delitto di furto non si configura, per mancanza di volontà colpevole, se l’agente non si rende conto che la cosa di cui si appropria è altrui, a causa di un’erronea interpretazione delle norme sulla proprietà).

La rilevanza dell’esatta rappresentazione degli elementi normativi è desumibile dall’art. 47 ult. Comma che stabilisce “se l’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce reato”.

Lo stesso vale per i casi di antigiuridicità speciale, in cui la stessa norma incriminatrice esige che il fatto sia realizzato illegittimamente, abusivamente … dal momento che in questi casi la condotta è incriminata in quanto presenti quel carattere di abusività, illegittimità … richiesto dalla norma penale; il dolo si configura solo se l’agente è a conoscenza dell’illiceità speciale commessa.

È dibattuto se rientrino nell’oggetto del dolo le qualifiche soggettive che ineriscono all’autore dei reati c.d. propri. Nei casi (la maggioranza) in cui la qualifica soggettiva non sia totalmente scissa dal fatto di reato, ma contribuisca a caratterizzarne lo specifico disvalore penale, l’ignoranza o erronea conoscenza della qualifica, impedisce al soggetto di cogliere il significato criminoso del fatto.

La conoscenza non deve avere ad oggetto la qualifica considerata nella sua astratta configurazione giuridica, perché ciò equivarrebbe (contro l’art. 5) a esigere la conoscenza attuale della norma incriminatrice; occorre invece avere conoscenza dei substrati di fatto della qualifica soggettiva, che sono quelli che assumono rilevanza ai fini del dolo (es. in tema di bancarotta, il soggetto risponde penalmente se è ben consapevole di dissipare il proprio patrimonio nell’esercizio di un’attività economica la cui natura imprenditoriale gli è chiara nella sostanza, anche se ignori che la legge gli attribuisce la qualifica formale di imprenditore.

Quindi in conclusione rientrano nel dolo i substrati di fatto su cui si basano le qualifiche soggettive; esula dal dolo la conoscenza della fonte giuridica delle qualifiche stesse, essendo tale conoscenza irrilevante ex art. 5.

È in dubbio se il dolo comprenda la “coscienza dell’offesa”, la quale come concetto sta ad indicare l’antigiuridicità del fatto, ovvero semplicemente l’incidenza negativa del fatto su interessi meritevoli di protezione. Per molto tempo, il pensiero della dottrina è stato influenzato dal principio di cui all’art. 5 nella sua originaria formulazione; a causa dell’esistenza di questa norma di sbarramento, che impediva di dare ingresso a ipotesi di scusabilità dell’ignoranza della legge, era giocoforza escludere che il dolo potesse abbracciare la conoscenza dell’illiceità come tale.

Per attenuare l’eccessivo rigore dell’art. 5, la dottrina pensò di privilegiare una nozione di offesa scissa dall’antigiuridicità penale in senso stretto (concepita nel senso di presupporre la conoscenza della specifica norma incriminatrice) e identificata con la lesione dell’interesse protetto considerato nella sua dimensione fattuale; in modo tale che il dolo potesse ricomprendere nel suo oggetto la consapevolezza che il fatto commesso è dannoso perché pregiudica interessi socialmente irrilevanti (anche se non la conoscenza dell’illiceità penale). L’assenza della coscienza dell’offesa così intesa avrebbe fatto venir meno il dolo, e quindi la punibilità.

La disputa teorica ha però perso rilevanza pratica a seguito della dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 5 (sent. 364/1988), essendo ormai possibile ammettere a certe condizioni che l’ignoranza scusabile della stessa antigiuridicità penale esclude la colpevolezza e quindi la responsabilità penale.

Comunque l’offesa intesa come sinonimo di illiceità penale esula sempre dal dolo in virtù dell’art. 5. Come oggetto del dolo l’offesa può venire in questione solo in un senso fattuale o sostanziale cioè come pregiudizio effettivo o potenziale, ad interessi protetti percepiti nella loro dimensione sociale (e non strettamente penale).

  • Parte della dottrina ha sostenuto che, ai fini della sussistenza del dolo, sarebbe indispensabile la consapevolezza del carattere antisociale del fatto. La valutazione di antisocialità andrebbe effettuata non sulla base di opinioni e convincimenti personali dell’agente, ma alla stregua di criteri valutativi dominanti nella comunità sociale. In realtà una volta riconosciuta l’indipendenza della sfera giuridica da quella etica, la contrarietà a preesistenti norme etiche o sociali non può assumersi a caratteristica o momento costitutivo necessario dell’illecito penale.
  • Altra parte della dottrina ha poi sostenuto che il dolo include la coscienza dell’offesa dell’interesse protetto (l’offesa viene considerata nella sua dimensione fattuale). La peculiarità di questo orientamento consiste nel duo diretto collegamento con la concezione realista dell’illecito penale che si espone a obiezioni difficilmente superabili. La dottrina argomenta il tal modo: l’art. 49 comma 2, assolverebbe la funzione di integrare la tipicità formale del fatto col principio di necessaria lesività, così l’art. 43 ne costituirebbe un pendant sul piano dell’elemento soggettivo e ciò perché, imperniando la definizione generale del dolo sull’evento dannoso o pericoloso, esso finirebbe col riferirsi all’evento inteso appunto, come offesa.

In conclusione una piena affermazione del principio secondo cui al dolo inerisce la coscienza dell’offesa presupporrebbe una profonda riforma dell’ordinamento penale, volta a circoscrivere l’ambito della rilevanza penale ai soli fatti il cui disvalore sia tendenzialmente percepibile in una dimensione concreta (cosa che non accade nei reati di pura creazione legislativa come reati di mera condotta fiscale).

 

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