La posizione di garanzia del medico nei confronti del paziente trova la sua fonte formale nel decreto legislativo 502/1992 che stabilisce a carico del personale del Servizio Sanitario Nazionale il compito di tutelare la salute dei cittadini, oppure nel contratto privato stipulato fra medico e paziente.

In sintesi, gli obblighi di garanzia spettanti al medico consistono:

  1. Esecuzione di accertamenti diagnostici e clinici necessari alla scelta della terapia
  2. Esecuzione della terapia
  3. Vigilanza delle condizioni del paziente
  4. Fornire al paziente un’informazione veritiera e comprensibile
  5. Rispettare la volontà del paziente ed astenersi in caso di rifiuto di una terapia
  6. Attuare, col consenso del paziente, gli interventi palliativi, in casi di estrema gravità

Importante è stabilire il fondamento della liceità dell’attività terapeutica medico-chirurgica, in quanto essa, teoricamente, va ad offendere il bene integrità fisica del soggetto nonché il bene vita. Quando un chirurgo esegue un’operazione, incidendo la carne del paziente, commette in teoria il reato di lesioni personali. Chiaramente così non è, ma occorre stabilire su cosa possiamo fondare la liceità dell’attività terapeutica rispetto ai reati che incriminerebbero ipoteticamente la condotta del medico.

La ricerca di questo fondamento segue tradizionalmente la via dell’atipicità del fatto o quella dell’assenza di antigiuridicità. Entrambe le teorie, però, sono state elaborate quando il consenso del paziente non era stato ancora espressamente posto alla base della questione, e pertanto si tratta oggi di teorie obsolete. Esse infatti risentono della vecchia concezione paternalistica del rapporto tra medico e paziente, visione che oggi non è più accettabile alla luce del nuovo modello di relazione terapeutica intesa come alleanza tra medico e paziente, espressamente valorizzata dalla recente legge 219/2017 quale relazione di cura e di fiducia.

Il fondamento della liceità dell’attività terapeutica va ricercato invece nell’obbligo di curare spettante al medico.

Vediamo più nel dettaglio perché la tradizionale tesi dell’atipicità del fatto non è sostenibile. Essa si basa sulla intrinseca liceità dell’atto medico, in ragione del suo alto valore sociale; mancherebbe inoltre l’evento tipico del reato di lesioni personali, cioè la “malattia”, essendo l’attività medica oggettivamente volta a rimuovere, non a cagionare, uno stato patologico.

In sostanza, secondo i fautori di questa teoria, l’attività medica in quanto tale godrebbe di una sorta di autolegittimazione oggettiva, in ragione della nobiltà del suo scopo.

In questo senso però, considerando l’attività medica come lecita in sé, si giustificherebbe l’intervento medico senza il consenso del malato. Alcuni hanno provato a correggere tale teoria inserendo l’elemento del consenso, ma ciò non farebbe altro che rendere contraddittoria la teoria: come può un’attività già di per sé atipica richiedere il consenso del paziente?

Parimenti inadeguate appaiono le soluzioni fondate sull’assenza di antigiuridicità del trattamento medico. Tali teorie valorizzano le scriminanti di cui agli articoli 50, 51 e 54 al fine di legittimare l’attività terapeutica. Queste soluzioni sono però inaccettabili, perché le citate scriminanti sono concepite in funzione di un conflitto di interessi facenti capo a soggetti diversi, conflitto che nel campo dell’attività terapeutica manca: i due interessi (guarire e non essere leso) appartengono entrambi al paziente, il quale però può scegliere quale dei due interessi sacrificare.

Ma vediamo più nel dettaglio perché le scriminanti non possono operare in questo ambito.

Quanto al soccorso di necessità, l’art.54 consente, ma non impone, al titolare del bene minacciato di operare una scelta fra due beni; in sostanza la norma facoltizza l’intervento del soccorritore, mentre l’attività terapeutica è obbligatoria: un medesimo atto non può essere allo stesso tempo imposto e facoltizzato dall’ordinamento.

Inoltre vi è da considerare che nell’attività terapeutica, a differenza della logica del soccorso di necessità, il bene sacrificato e quello tutelato appartengono ad un unico soggetto.

Per quanto riguarda invece l’adempimento del dovere (art.51), considerarlo come fondamento della liceità dell’attività medico-chirurgica sarebbe incompatibile con il consenso del paziente. La scriminante dell’adempimento del dovere è concepita in ordine alla realizzazione di un interesse ritenuto prevalente su quello sacrificato, appartenente ad altro soggetto, sicché chi adempie al proprio dovere non può tenere conto della volontà di chi subisce. Nell’attività terapeutica, invece, il titolare dei due beni in gioco è sempre il paziente.

Questa scriminante potrebbe eventualmente operare nel caso dei trattamenti sanitari obbligatori in cui si prescinde dal consenso del singolo per tutelare la salute della collettività.

Quanto alla scriminante dell’esercizio del diritto, essa non può fondare la liceità dell’attività terapeutica. L’attività del medico dovrebbe atteggiarsi, in questo senso, a mera facoltà di agire concessa al professionista: ciò è incompatibile con la obbligatorietà dell’attività terapeutica.

Non può operare infine neanche la scriminante del consenso dell’avente diritto (art.50). In effetti, se così fosse, dovremmo considerare illecita l’azione salvifica del medico posta in essere sul paziente incosciente e quindi non in grado di prestare il consenso. Inoltre l’art.50 attribuisce, a chi ottiene il consenso, una mera facoltà di agire, in contrasto con la dimensione doverosa dell’attività terapeutica nei confronti del singolo paziente.

Il fondamento generale di liceità dell’intervento medico va rintracciato nell’obbligo di curare, che discende dalla posizione di garanzia del professionista risultante dalla relazione terapeutica delineata dalla legge 219/2017. La doverosità dell’atto medico è un fattore di esclusione della tipicità del fatto rispetto ai delitti contro la vita e l’incolumità. L’esecuzione di tale obbligo non è solo giustificata, ma lecita ab origine, e conseguentemente atipica rispetto a quelle fattispecie incriminatrici che essa in apparenza sembrerebbe integrare.

In effetti, il legislatore, nella costruzione del tipo legale di una norma incriminatrice, non si limita alla considerazione di un fatto in una dimensione naturalistica, ma compie anche un’operazione di carattere valutativo, selezionando le rilevanti tipologie di aggressione al bene giuridico in cui si annida il disvalore di azione. E la natura tipica o atipica di una certa condotta può emergere anche dall’intero ordinamento, come accade nel caso dell’attività medica.