Circa le scelte di politica legislativa in materia di stupefacenti vi sono storicamente due concezioni contrapposte:

  1. Antiproibizionismo. In base a tale concezione si ritiene che le attività di produzione, commercio e consumo vadano liberalizzate (liberalizzazione) oppure quantomeno legalizzate (legalizzazione): mentre nel primo caso vi è una libertà totale per produttori, commercianti e consumatori, nel secondo caso la produzione, il commercio ed il prezzo delle sostanze sono determinate dallo stato, il quale può inoltre disporre che il consumo avvenga sotto il controllo delle autorità sanitarie in apposite strutture.
  2. Proibizionismo. Prevede come reato le condotte di produzione, commercio e traffico illegali di sostanze stupefacenti, lasciando invece al consumatore la facoltà di scegliere tra la repressione penale e le misure diverse dalla sanzione criminale. Le Convenzioni internazionali in tema di stupefacenti impongono al nostro paese il modello proibizionista. La ratio delle incriminazioni in materia di stupefacenti è combattere il mercato della droga, tutelando innanzitutto la salute pubblica. Certamente la salute pubblica assumere un ruolo privilegiato, ma i reati in tema di stupefacenti, sul modello pluri-offensivo, proteggono anche beni come sicurezza, ordine pubblico e normale sviluppo delle generazioni.

 

Occorre ora vedere l’evoluzione della legislazione in tema di stupefacenti

 

Legge del 1923

Il primo intervento penalistico in materia di stupefacenti si ha con una legge del 1923 che dà attuazione ai principi affermati nella “Convenzione dell’oppio” (1912).

Questa legge stabilì sanzioni penali per chi avesse venduto, somministrato o detenuto a fine di vendita o somministrazione cocaina, morfina, loro composti o derivati, ed in genere qualsiasi “sostanza velenosa” avente azione stupefacente; si puniva inoltre gli assuntori di sostanze stupefacenti che avessero preso parte a “convegni” in fumerie adibite all’uso di stupefacenti.

 

Codice penale del 1930

Il codice Rocco prevedeva originariamente quattro figure di reato, precisamente due delitti (446 e447) e due contravvenzioni (729, 730), caratterizzate dalla logica di punire il commercio ed il consumo di sostanze stupefacenti nell’intento non di punire tali condotte in quanto tali ma di tutelare l’ordine pubblico.

L’art.446 incriminava il commercio clandestino; l’art.447 sanzionava l’agevolazione dolosa dell’uso di sostanze stupefacenti, in riferimento a chi adibiva locali a convegno dell’uso di sostanze stupefacenti; l’art.729 incriminava la condotta di chi venisse colto in luoghi aperti al pubblico in stato di grave alterazione psichica per abuso di stupefacenti.

A seguito di varie modifiche (che vedremo) oggi rimane solo la contravvenzione di cui all’art.730 che punisce la somministrazione, da parte di un soggetto autorizzato al commercio di medicinali, a minori di anni sedici di sostanze stupefacenti anche su prescrizione medica.

 

Legge del 1954

Si introduce una disciplina organica della materia degli stupefacenti, sanzionando penalmente la mera detenzione di sostanze stupefacenti, compresa quella finalizzata all’uso personale.

Le norme del codice penale rimangono in vita tutte e quattro.

 

Legge del 1975

Mirando ad un riordino complessivo della materia, vengono abrogate le norme del codice penale, ad eccezione della contravvenzione di cui all’art.730.

La detenzione per uso personale viene ancora considerata in ogni caso illecita, ma si prevede una causa di non punibilità caratterizzata dalla “modica quantità” della sostanza stupefacente.

 

Legge Iervolino-Vassalli (1990)

Viene introdotto il Testo Unico delle leggi in materi di stupefacenti, distinguendo tra droghe leggere e droghe pesanti, variando la cornice edittale delle pene.

Inoltre, per identificare la detenzione sanzionata penalmente viene inserito il criterio oggettivo della “dose media giornaliera” (dmg), la cui quantificazione competeva al ministero della salute: la superazione di tale dose era considerata in pratica come una presunzione di spaccio.

Da più parti vengono mosse critiche, ma la Corte Costituzionale afferma che questo schema di incriminazione trova fondamento nell’esigenza di limitare l’accumulo di droga per uso personale al fine di contrastare il traffico illecito, evitando che una parte possa essere ceduta a terzi.

Tuttavia nel 1993 un referendum abroga la legge.

 

Legge Fini-Giovanardi (2006)

Tale legge equipara droghe leggere e droghe pesanti, con un medesimo trattamento sanzionatorio. Ciò ha determinato un’ingente crescita del numero dei detenuti per delitti in materia di stupefacenti.

 

Sentenza Corte Costituzionale 32/2014

Nonostante la contestata irragionevolezza dell’assimilazione sanzionatoria tra droghe leggere e pesanti, la censura con la quale la Corte Costituzionale abroga la legge Fini-Giovanardi è basata su motivi procedurali, precisamente per la palese eterogeneità tra il contenuto del decreto legge ed il testo della legge di conversione, oggetto di corposi emendamenti.

A seguito dell’abrogazione della legge Fini-Giovanardi, le norme di quest’ultima cessano di avere efficacia, mentre le disposizioni precedentemente abrogate rivivono (reviviscenza). In effetti, il vizio procedurale della legge Fini-Giovanardi fa ritenere che le disposizioni siano adottate in carenza di potere, e pertanto le disposizioni sono inidonee ad innovare l’ordinamento.

Si è stabilito inoltre che la pronuncia della Corte ha caducato con effetto retroattivo gli atti ministeriali che, nella vigenza della legge Fini-Giovanardi, avevano inserito nuove sostanze stupefacenti nelle tabelle. Il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli al cittadino è infatti sempre vincolante per il legislatore.

Ciò è stato confermato dalle Sezioni Unite, che hanno affermato l’impossibilità di postulare la sopravvivenza dei provvedimenti amministrativi non più sorretti dalle norme direttive che le avevano ispirate: una soluzione diversa violerebbe il principio di legalità.

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